La confusione politica a un mese dal voto
di Paolo Lingua
L’esito, per chi è abituato a valutare le vicende politiche con l’esperienza che parte dalla “prima repubblica”, era scontato. L’accordo tra Pd, Italia Viva e M5s non ha contenuti omologhi, ma è solo dettato dall’opportunità (opportunismo?) dello stare insieme per forza al fine di non far vincere il centrodestra. Schieramento quest’ultimo che ha all’interno profonde differenze di politica economica, di politica estera e di ideologia, ma che, al momento del voto a tutti i livelli, serra le fila e punta a vincere, costi quello che costi.
Anche nel centrodestra in futuro sono possibili spaccature: i piccoli partiti centristi e Forza Italia sono liberali, europeisti, antisovranisti e non hanno molto a che vedere con la Lega e Fratelli d’Italia. La Lega poi, anche se traspare a stento, ha ribollimenti sui suoi fondali: Giorgetti e Zaia non sempre sono omologhi con Salvini che naviga con qualche affanno.
Ma il punto caldo in questi giorni resta l’area di centrosinistra. Vale la pena di fare la rassegna dei partiti protagonisti nelle regioni dove si voterà (esclusa Val d’Aosta che è un caso a sé). In Veneto, dove Zaia è dato vincente senza avversari, renziani, grillini e Pd correranno ciascuno per conto proprio. In Toscana Pd e renziani sono alleati, mentre il M5s sta per conto suo. Nelle Marche c’è accordo Pd e renziani, ma il M5s non ne vuole sapere di un accordo con il Pd. Lo stesso discorso vale per la Puglia dove renziani, grillini e Pd avranno ciascuno un candidato presidente. La stessa situazione si ripete in Campania. In Liguria c’è l’accordo tra PD e M5s, ma Italia Viva e partiti minori hanno un candidato autonomo.
Negli ultimi giorni, dopo un tentativo – diciamolo pure: un po’ goffo – del premier Giuseppe Conte per ricucire gli strappi ha dato l’effetto opposto. In particolare da parte del M5s (proprio riguardo alle quattro regioni dove c’è una maggioranza di centrosinistra) c’è stata una sollevazione irritata. In realtà c’è poco da stupirsi: negli anni passati i grillini hanno sempre pesantemente criticato, dal loro punto di vista, le scelte amministrative e di gestione del Pd sia a livello locale, sia a livello nazionale.
Ne sa qualcosa Matteo Renzi quando era presidente del consiglio. Ma un altro tema scottante che sta emergendo è quello del referendum. In passato il Pd è sempre stato contrario al taglio dei parlamentari fine a se stesso, sostenendo che occorrono altri ritocchi costituzionali di assestamento e una nuova legge elettorale. Alla fine, contraddicendo il loro passato, quando erano già alleati nel governo, il Pd ha dato via libera al taglio fine a se stesso che il M5s sostiene per una scelta demagogica e “di pancia” contro la presunta “casta”. Ora stanno nascendo non pochi comitati di varia estrazione (di destra e di sinistra) con il sostegno di molti opinionisti e costituzionalisti che sono scesi in campo per dichiarare il “no” al referendum (opinione condivisa da tutti i piccoli partiti che temono di scomparire e dai renziani).
Il che ha aperto di nuovo il campo dei dubbi all’interno del Pd dove cresce la linea del “no”. Anche nel centrodestra non mancano oscillazioni, tra correnti populiste (per il “si”) e dubbiosi che cominciano a riflettere su un possibile “no”. Il governo che deve attraversare nei prossimi mesi i percorsi tormentati del coronavirus e della crisi economica appare ondeggiante di fronte a un Paese dove ogni giorno emergono contraddizioni e ondeggiamenti. Il limpido e lucido intervento di Mario Draghi ha fatto il resto, invitando l’esecutivo ad agire con rapidità e concretezza.
Ma scegliere e agire vuol dire – e Conte lo sa – nuove spaccature tra gli alleati che lo sostengono . Di qui esitazioni, contraddizioni e tentativi di guadagnare tempo nella speranza di imboccare un orizzonte più tranquillo. Alla fine sulle scelte dei mesi prossimi inciderà l’esito elettorale che potrebbe anche portare a nuove crisi.
Non si potrà sperare in un governo di salute pubblica imposto dalla presidenza della repubblica. Sarà impossibile ottenere un consenso generale perché una parte dello schieramento, in caso di crisi punterebbe, logicamente, alle elezioni politiche. Per qualche tempo ci dovremo abituare ad andare in giro con la sfera di cristallo, come gli indovini.
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