Morandi, la tesi della demolizione con le cariche di dinamite ha vinto
di Paolo Lingua
Il punto di Paolo Lingua
L’ipotesi di demolire con microcariche di dinamite le pile est del ponte Morandi ha prevalso e, certamente, è meglio così. Con l’esplosivo saranno anche demoliti quegli edifici sottostanti che non avranno più possibilità d’essere recuperati per evidenti motivi di sicurezza, quando il ponte sarà definitivamente ricostruito. La nuova realtà sarà rispettosa dell’ambiente, delle abitazioni e delle persone e non ci sarà più una struttura incombente sulle case, come invece era avvenuto quasi mezzo secolo fa quando era stato realizzato il ponte Morandi. A voler rileggere l’altalenarsi delle ipotesi di questi ultimi mesi, si era arrivati a un punto quasi di rifiuto dell’impiego delle cariche di dinamite. Un certo timore, in parte irrazionale, legati alla possibile diffusione di sostanze nocive o tossiche (in particolare l’amianto) aveva distolto la decisione di impiegare gli esplosivi per tutta la struttura, sia est sia ovest del ponte. Poi sono nati i distinguo e dopo analisi e controlli si è giunti alla decisione definitiva.
In effetti non è che la demolizione meccanica sia molto meglio perché aumenta i tempi, i rischi di dispersione di materiali frantumati e dei rottami sono maggiori, per non parlare di quanto può coinvolgere gli operai e i tecnici coinvolti nella fase demolitoria, rischi di crolli compresi. Il dramma del crollo ha reso tutti prudentissimi: né va dimenticato che la magistratura, al di là delle indagini sulle responsabilità della tragedia, tiene da sempre tutto sotto controllo. Al tempo stesso, non ha torto il sindaco – commissario Marco Bucci a impuntarsi per imprimere una accelerazione (ragionevole beninteso) alle operazioni di demolizione che, come è già stato constata e detto più volte, si sono dimostrate assai più complesse e difficoltose di quanto forse non appaia l’azione delle ricostruzione. La demolizione è un’azione complessa che riguarda le strutture del ponte e anche decine e decine di abitazioni, visitate in questi giorni per l’ultima volta dagli ex inquilini.
Ma ci saranno, oltre agli aspetti traumatici dei crolli, anche le non semplici operazioni di rimozione dei detriti, oltre che della conservazione di quanto potrà essere ancora oggetto di prova e di analisi da parte degli esperti nominati dalla magistratura. Ci sarà una complessa azione di ricostruzione o meglio di ristrutturazione delle aree e dei quartieri coinvolti, la realizzazione già annunciata d’un parco, la ripresa della viabilità e del transito pubblico e privato.si annuncia un programma complesso di rivisitazione urbanistica che sarà esaurito certamente nel volgere di parecchi anni. Ecco perché di spera che con l’impiego della dinamite sia possibile accelerare in maniera determinante la demolizione e tutte le opere ad essa connesse. C’è una parte di città che va riplasmata e non si può far decollare lavori e opere destinati a prolungarsi all’infinito. Non ci sono soltanto i danni gravi e gli ostacoli fisici a molti aspetti della ripresa, ma ci sono condizioni psicologiche che in qualche modo hanno coinvolto tutta la città. C’ insomma, retorica a parte, un gravissimo vulnus che è da chiudere e da cicatrizzare al più presto. Ben venga, anche metaforicamente, il rombo delle cariche e il fragore delle strutture frantumate che crollano. L’importante è che il ponte autostradale nuovo diventi funzionale a pieno ritmo entro la fine del 2020. Allora tutte le scommesse della città e del territorio potranno essere giocate sul tappeto verde della speranza e della ricrescita.
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