La Sardegna e il nuovo crollo dei 'grillini'
di Paolo Lingua
Il Punto di Paolo Lingua
Quello che emerge di più vistoso dalle elezioni regionali sarde è il crollo dei “grillini”. In meno d’un anno, dal 42% alle elezioni nazionali, il M5s annaspa attorno all’11%. Di Maio insiste sul fatto che il suo movimento ha dato sempre risultati migliori alle “politiche” piuttosto che alle “amministrative”, ma la perdita di tre quarti dei voti è forse un po’ troppo, anche perché il M5s ha sempre puntato alla raccolta d’un voto di opinione pescando nella massa qualunquista degli scontenti e dei frustrati, nonché su un diffuso sentimento di invidia sociale.
I “grillini” però hanno fatto marcia indietro sulle grandi opere e hanno faticato a stare dietro all’alleato della Lega nei campi dell’immigrazione, della legittima difesa, dell’ordine pubblico e delle pensioni. Senza contare che Salvini ha sempre sostenuto le grandi opere, Tav compresa: ora sarà interessante vedere che cosa accadrà riguardo alle divergenze sulle scelte non omologhe di governo che sono sempre all’ordine del giorno.
Confermata la crescita del centrodestra del suo insieme e della Lega ferma in Sardegna a una percentuale non eccelsa, ma occorre tenere conto che è la prima volta che si presentava nella regione. Ma ormai siamo entrati, come ormai avviene con velocità vorticosa da un anno all’altro, in un nuovo ordine di idee. Come già avvenuto in Abruzzo poche settimane fa, si sta delineando un nuovo assetto politico.
Si va verso vaste alleanze dove i partiti si affiancano a liste autonome. Ed emerge una antitesi che, con le dovute modifiche, si tuffa nel passato: sparisce il centro e si affrontano due schieramenti federati, il centrodestra il centrosinistra, in via di trasformazione e di nuovi assetti. Il M5s è ormai relegato al terzo posto (vedremo le europee come ulteriore banco di prova), ma come tutti i movimenti di protesta senza un vero assetto (come i qualunquisti, i poujadisti, ecc.) potrebbe essere destinato a un rapido declino.
D’altro canto in Italia, nella storia dal dopoguerra a oggi, ha sempre visto le posizioni estremiste (di destra o di sinistra non importa) condannate all’opposizione fine a stessa. Con questo ultimo risultato l’Italia torna verso l’Europa. C’è un discorso a parte che riguarda Matteo Salvini che, prima o poi, dovrà far cadere questo governo e, riprendendo magari verso nuove elezioni politiche, dovrà tornare a un nuovo centrodestra di cui per adesso pare destinato a fare il leader. Dovrà però adattarsi a trattare e a governare con Berlusconi e con la Meloni, con una mentalità politica più tradizionale, rendendosi conto che il nostro Paese ha bisogno d’un ritorno alla normalità.
E la Liguria? La situazione appare sempre più netta: per le prossime elezioni regionali, se non ci saranno prima con qualche sorpresa le elezioni politiche, non resta per il centrodestra che ripresentare la squadra vincente del 2015, sapendo di dove affrontare come antagonista una coalizione di centrosinistra. Quest’ultima farà bene, a differenza del passato, a evitare spaccature, frazionamenti, divisione basate su elucubrazioni ideologiche buone due secoli fa.
Tutti oggi hanno bisogno d’un sano pragmatismo amministrativo e operativo. La guerra allo sviluppo economico, ad acciuffare quello che di buono e utile c’è nel mercato mondiale non porta da nessuna parte, così come i provvedimenti fumosi e confusi. La Liguria deve volare a ricostruire il ponte a moltiplicare la sua rete di comunicazioni e trasporti e semmai sulla tecnologia più raffinata e avanzata, valorizzando il turismo di élite e di massa, visto che ha una doppia possibilità. Ma si tratta di scelte razionali, non sono di destra né di sinistra. Però bisogna saperle manovrare con abilità e con spregiudicata intelligenza.
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