Di cosa parliamo, quando parliamo della Milano-Sanremo
di Stefano Rissetto
L'evento sportivo più importante dell'anno in Liguria, terra che nel ciclismo annovera anche un Giro dell'Appennino da rilanciare in grande stile
Di cosa parliamo, quando parliamo della Milano-Sanremo? Dalla scatola magica dei ricordi affiora Vittorio De Scalzi, che da un balcone di via Roma sopra il traguardo filma e applaude le note conclusive della fuga matta e disperatissima di Vincenzo Nibali, sei anni fa ultimo italiano a vincere. Il musicista genovese ha vissuto il suo ultimo tempo nella città dei fiori, teatro dell'arrivo più emozionante del calendario ciclistico.
La Sanremo è infatti una corsa tipicamente ligure, per parsimonia intrisa di esorbitanza. Fatta di niente o quasi, poco meno di trecento chilometri però, in attesa dei cinque conclusivi, una fiammata di pura bellezza, dove al bivio del Poggio si dà fuoco ai mortaretti. Tecnicamente non ha i contenuti scremanti delle altre quattro “Classiche Monumento”: i muri del Fiandre, il pavé della Roubaix, i saliscendi della Liegi e gli strappi del Lombardia. Non ha nemmeno lo sterrato della Strade Bianche, ultima nata che sgomita per essere promossa tra le corse che valgono una vita.
Ha però, appunto, la Riviera. Passato il Turchino con l'arrivo alla fine di Voltri, dove al capolinea dell'1 c'è il punto più alto del Mediterraneo, il tracciato accarezza il mare fino all'arrivo. Conserva anche un valore estetico e simbolico, per l'inane transumanza dalla partenza, nella pianura eguale a se stessa nei pressi dei dolci colli di Coppi e Girardengo. Per qualche tempo il via è stato dato dal Vigorelli, dove proprio il Campionissimo aveva stabilito il record dell'ora in tempo di guerra, nel velodromo striato dalle urla delle sirene degli allarmi aerei. Adesso Milano ha voltato le spalle al ciclismo, un anno fa si partì da Abbiategrasso e stavolta da Pavia. Tuttavia anche la Roubaix parte da tempo da Compiègne e gli organizzatori nemmeno pensano a rinunciare alla finzione del via da Parigi.
Una Riviera, appunto, ligure. Nel 2020 della pandemia gli esercenti del turismo si erano opposti al passaggio della corsa, riprogrammata l'8 di agosto, per via delle interferenze commerciali legate al blocco del traffico. La Sanremo saltò così la Riviera, passando in Basso Piemonte nella Granda per risbucare a Pieve di Teco, con il chilometraggio totale salito a 305. Maniman, dissero tutti tranne Wout van Aert, incredulo di non essere arrivato secondo.
Stavolta si spera di evitare il saliscendi emergenziale delle Manie, legato ai capricci del Malpasso, (nella foto) il punto paesaggistico più suggestivo del panorama ciclistico mondiale. Le frane degli ultimi giorni potrebbero rendere necessario un altro cambio di percorso.
Di cosa parliamo, quando parliamo della Milano-Sanremo? Di un pezzo di storia d'Italia, in definitiva. Roversi e Dalla hanno cantato la Mille Miglia del Quarantasette come cesura tra le macerie della guerra e le voci luci colori della rinascita; ma pochi di noi non si sono sentiti raccontare dai nostri vecchi, e il nonno di oggi è stato il ragazzo di ieri, la radiocronaca della Sanremo del Quarantasei, il primo San Giuseppe di pace. Coppi era andato in fuga non solo dal gruppo, ma dal suo giornale di guerra e di prigionia, cinque anni rubati al suo tempo di atleta, a lui come a Bartali, un tempo che mancherà tra maglie gialle e rosa e iridate rimaste inassegnate, prima che la morte contadina risalisse le risaie facendo il verso delle rane, nascosta in un tubetto vuoto di chinino. Centoquarantacinque chilometri tutti da solo, centoquarantacinque scritti in lettere ché fanno più impressione. A che cosa pensava Fostò, arrivando a mettere un quarto d'ora tra sé e i battuti? Alfredo Martini diceva che il ciclismo è il solo sport che ti permette di pensare mentre lo fai, gli amatori sostengono che "Il ciclismo non è un gioco. Si gioca a calcio, a tennis, a pallavolo, ma non si gioca a ciclismo". E quel giorno Nicolò Carosio, sulla stessa linea bianca di via Roma ammirata molti anni dopo dall'uomo di “Aldebaran”, disse sardonico: “In attesa dell'arrivo dei battuti, trasmettiamo musica da ballo”.
Il ciclismo, disciplina pure tra le meno antiche, si declina abitualmente nella forma della nostalgia. C'è sempre un campione del passato cui paragonare il vincente del momento. Specie se sono nonno e nipote: c'è un fotomontaggio incantevole, che affianca sullo stesso traguardo Raymond Poulidor, vincitore alla Sanremo del 1961, e il figlio di sua figlia Mathieu van der Poel, primo lo scorso anno: generazioni che si rincorrono nell'inesorabile fuga del tempo. Così nella nostra terra, che oltre alla Sanremo annovera pure il Trofeo Laigueglia che ne rappresenta un sostanziale prologo, c'è un fossile sportivo che ancora balugina. E' il vecchio caro Giro dell'Appennino, nato a Pontedecimo e fiorito sul crinale della Bocchetta, arcigno giudice estensore di un albo d'oro scintillante. “L'ultima corsa in bianco e nero”, mi venne a fine anni Novanta per un titolo, molto caro all'anima cara di Gualtiero Schiaffino, che da assessore provinciale molto si era speso per difendere la corsa. Nel tempo, agli storici sodali ed eredi di Luigin Ghiglione della US Pontedecimo si sono affiancati mecenati come Tarcisio Persegona e gli stessi enti locali, dalla Regione al Comune. L'Appennino è un gioiello che soffre della stessa malattia del ciclismo nazionale: il disinteresse delle grandi aziende che nell'Italia dell'espansione economica alimentavano il movimento nazionale, tanto che Eddy Merckx, il più forte di sempre e tra l'altro sette volte primo a Sanremo, correva con la maglia di una fabbrica di macchinette da bar per caffè oppure con quella di un salumificio.
Eppure il ciclismo ha un fascino antico e modernizzato dall'elicottero, che disegna paesaggi e panorami e li offre come cartolina animata ai telespettatori. Negli ultimi anni le sedi dei mondiali, dalle Fiandre di Lovanio alla Scozia di Glasgow e perfino in Nuovo Galles del Sud a Wollongong, hanno così visto aumenti dei flussi turistici legati alla fiera dell'arcobaleno. Sarebbe bello che Genova e la Liguria nel mondo non fossero simboleggiate soltanto o soprattutto da una salsa, ma anche da una “corsa in bianco e nero” colorata non con l'elettronica insincera, ma con una passione secondata in modo opportuno. L'Appennino è lì, un diamante da far brillare ancora. Fratello minore della Milano-Sanremo, certo, regina e inaugurazione della primavera, pur sempre itinerante teatro di bellezza, segno sommesso di malinconia e mistero del ciclismo.
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