Stadio Ferraris: ma perché bisogna proprio rifarlo a Marassi?

di Stefano Rissetto

5 min, 21 sec

Un'area nuova, nella città che andò a costruirsi l'aeroporto in mare, a volerla davvero la si trova

Stadio Ferraris: ma perché bisogna proprio rifarlo a Marassi?

Pari pari a quella facezia in cui l'avventore chiede una coppetta al limone, il gelataio risponde 'limone finito', allora il cliente insiste 'allora mi dia un cono al limone'? Ecco. Perseverare, si sa, è materia demoniaca; ed è proprio quello che si sta facendo, per l'ennesimo dibattito sullo stadio di Genova.

Tra stroboscopiche promesse riecheggianti l'arcivernice del professor Lambicchi, si è persa di vista la soluzione forse non la migliore, probabilmente la meno peggiore: tutti sdottoreggiano infatti di come rifare il Ferraris esattamente là dove sorge adesso; nessuno ormai quasi più sostiene che uno stadio nuovo dovrebbe essere nuovo in tutto, ubicazione compresa.

Tocca tornare indietro, perché chi non conosce la storia è condannato a ripeterne gli errori. E tutto nasce da un errore, con sospetto di venature dolose. Quando l'Italia si era vista assegnare il Mondiale 1990, con relativa pioggia di finanziamenti nei tempi che Berta filava e il debito pubblico non era un problema di chi governava, a Bari e Torino e Trieste (sede poi scartata a favore di Udine) mica demolirono lo stadio vecchio: se li tennero stretti, sono infatti ancora in piedi, e ne fecero uno nuovo da un'altra parte. Nel tempo anche a Messina, ai tempi della A, mica lo hanno buttato giù il Celeste, quando hanno costruito il Franco Scoglio da 45mila posti. Idem a Reggio Emilia, Padova, Salerno, Ancona, Perugia; perfino a San Benedetto del Tronto il vecchio Fratelli Ballarin l'hanno buttato giù solo adesso. Quasi dappertutto, dove hanno avuto la possibilità di farne uno nuovo, hanno lasciato in piedi quello vecchio, casomai potesse servire ancora per altri sport oppure per i concerti, e hanno trovato un'altra area per quello da edificare.

Qui no, qui ci credevamo più furbi e pur potendoci fare un altro stadio a spese della fiscalità generale, e con due squadre non sarebbe stata una brutta idea, si scelse di fare del Ferraris un bieco cantiere biennale a capienza dimezzata, con relativi disagi agonistici. Perché? Lo stadio non era né brutto (molti lo rimpiangono, anche se diminuiscono di anno in anno quelli che lo frequentarono) né vecchio: Torino (data di costruzione 1933, come quello del Livorno che ci ha giocato in A fino al 2014), Bologna (1927), Fiorentina (1931) e Catania (1937) giocano tuttora in impianti coetanei o addirittura più anziani di quello distrutto a Genova nel 1987.

Non c'erano posti dove farne un altro? C'era ancora per esempio piazzale Kennedy, dove inutilmente negli anni Settanta il lungimirante presidente del Genoa Renzo Fossati, di mestiere costruttore, aveva proposto al Comune di farne uno nuovo, a sue spese, in cambio dell'area di Marassi previo cambio di destinazione d'uso. A volerla davvero individuare, l'area si sarebbe trovata, magari con la stessa fantasia con cui, per non perdere i finanziamenti specifici, si trasformò la vecchia galleria del tranvai a Di Negro nella metropolitana allora più corta del mondo. Durante il Mondiale i tifosi inglesi diretti a Torino sbarcavano dai traghetti dalla Sardegna, vedevano la palina con la "M" rossa, dicevano "wonderful, ora giriamo la città", salivano e in due minuti si trovavano a Certosa e fine del divertimento.

Ma passiamo al presente. Chi si accanisce sul dogma di Marassi è come il cliente che continua a chiedere il gelato al limone malgrado sia finito e pensa che il problema sia il contenitore. Un dogma, quello della perpetuità dell'ubicazione marassina, coltivato in verità più sulla sponda rossoblù che su quella blucerchiata e solo a partire dal 2002, quando un'improvvida quanto inaccettabile dichiarazione ("Demoliremo Marassi e il Genoa verrà a giocare in affitto nel nostro nuovo impianto"), proveniente dai vertici della Sampdoria, aveva giustamente radicalizzato la tifoseria genoana in un'intransigenza del tutto condivisibile; ma quel legittimo, sacrosanto moto di orgoglio finì per sclerotizzarsi non senza aspetti contraddittori. Chi aveva infatti davvero a cuore la storia avrebbe dovuto battersi a suo tempo per difendere non già la semplice ubicazione topografica, come avviene dal 2002, ma proprio lo stadio storico, cancellato invece nel 1987 senza che alcuno avesse niente da obiettare. Chi scrive, uno dei giorni in cui stavano buttando giù con la palla di ferro la gradinata dove era stato bambino e ragazzo, si intrufolò nel cantiere a prendersi un pezzo di quel cemento, il sottofondo era "Piccon dagghe cianin" e non credo di essere stato, tra i genoani e i sampdoriani, il solo a farlo.

Da allora, oltretutto, sono cominciati i guai. Forse perché il nuovo stadio è nato male, su un progetto corretto in corsa più volte e revisionato da allora con cadenza costante, a partire dal grottesco rialzo del terreno per ovviare all'assenza assoluta di visuale dagli angoli bassi degli spalti. Si disse che l'architetto Vittorio Gregotti avesse adattato alla bisogna un preesistente progetto per lo stadio di Nimes, in Francia; a guardare le foto, in effetti, il dubbio viene.

Snerverebbe l'elenco delle sventure patite dal giorno (1 novembre 1989, Sampdoria-Borussia Dortmund di Coppa delle Coppe), della definitiva entrata in funzione del nuovo Ferraris. Che è invecchiato molto presto, malgrado le ricorrenti iniezioni di botox. Perciò rigenerarlo, o anche rifarlo integralmente, nello stesso posto non farà che prolungare il gioco dell'oca: per l'angustia degli spazi urbanistici, per la collocazione accanto a un corso d'acqua problematico, per tutto quello che sappiamo. Infatti ogni tanto si dice "spostare il carcere" come se quella fosse la pietra filosofale, ma il Bisagno non puoi spostarlo e nemmeno i palazzi di corso De Stefanis e via Casata Centuriona; non puoi fare i "diradamenti", tipo Borgo Pio o Parigi del barone Haussmann, che darebbero respiro all'eventuale nuovo Ferraris. Quindi il nuovo o rinnovato impianto potresti farlo disegnare anche da Gucci, con gli arredi di Dolce & Gabbana, i seggiolini da progetto di Enzo Mari, ma tempo due o tre partite e saremmo daccapo.

Perché nessuno più propone di farne uno da tutt'altra parte, che sarebbe la cosa migliore e più ragionevole, una soluzione che converrebbe a tutti? Perché il solo parlarne sembra un sacrilegio o una velleità da acchiappanuvole? Se il problema è il nome, Luigi Ferraris è un caduto della Grande Guerra e sarebbe folle cancellarne la memoria che appartiene a tutti. Rimosso questo increscioso equivoco, parliamone. Uno stadio prende meno spazio di un aeroporto. E siamo pur sempre nella città che, quando aveva voluto dotarsi di un aeroporto, se l'era andato a costruire in mare.