C'era una volta il mito della par condicio
di Stefano Rissetto
Una legge fondata su una tesi, il potere persuasivo delle tv in tema elettorale, che non spiega né le sconfitte di Berlusconi, né i fenomeni Lega, M5S e Meloni
E' tornata la par condicio. Fino alla consumazione delle Europee, i palinsesti televisivi soggiaceranno nuovamente a una normativa del 2000, che aggiornava una precedente legge del 1993.
Entrambi i provvedimenti erano stati approvati sul finire di una legislatura, da maggioranze parlamentari esplicitamente non disinteressate a depotenziare, se non sterilizzare, la portata mediatica di un personaggio che nel primo caso stava per entrare in politica e nel secondo voleva riconquistare Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi, naturalmente.
Ma è poi così vero che la televisione influenza i telespettatori, o meglio gli elettori? L'equazione “Berlusconi proprietario di tre reti = Berlusconi pifferaio magico di buona parte degli italiani” non tiene conto del vero fattore decisivo per le elezioni dal 1994 in poi. Che non riguarda la tv, ma l'aritmetica politica.
Fino a trent'anni fa, in Italia le consultazioni erano scalene, diseguali, matematicamente imperfette, perché condizionate da due premesse vincolanti. C'erano due partiti legittimi, con molti iscritti e molte sedi, che partecipavano regolarmente alle elezioni, ma non avrebbero mai potuto far parte di una maggioranza e quindi di un governo, a meno di non ottenere il 51% dei voti. Erano il PCI che, dopo l'esperimento frontista del 1948, si era votato a un ruolo di opposizione testimoniale; e il MSI dei reduci saloini. Il primo era legato all'URSS, il secondo al fascismo sconfitto.
Il PCI veniva votato da un elettore su quattro, a volte tre; ma in un'Italia che ospitava il Vaticano e attentamente sorvegliata da Washington, in tempi di guerra fredda, non toccò mai palla. A sua volta il MSI contava su un 5% stabile, salito a volte fino al 9% e sopravvissuto alla scissione parlamentare di Democrazia Nazionale nel 1977, ma di fatto anche quei voti erano irrilevanti, nessun altro partito o coalizione avrebbe potuto contabilizzarli per costruire una maggioranza: disdegnati sia dal PCI, e questo era ovvio, che dalla DC e satelliti. Con due eccezioni: la formazione del governo Tambroni e l'elezione di Leone al Quirinale.
Berlusconi non usò tanto le tv, quanto il suo pragmatismo imprenditoriale per vincere le elezioni. Certo, premette l'acceleratore sulla paura del comunismo, anzi dei comunisti; ma soprattutto fece in modo di poter finalmente utilizzare quel pacchetto di voti “fantasma”: il MSI si trasformò in AN, con l'innesto di alcuni esponenti eterodossi, e quei suoi voti finalmente utilizzabili furono importanti, se non determinanti, per l'esito del voto del 27 marzo, con il supplemento di machiavellismo tattico della neonata Forza Italia alleata con la Lega al Nord e con Alleanza Nazionale al Sud. Il gioco fu tutto qui, le televisioni c'entravano poco o niente.
Anche perché la presunta forza persuasiva elettorale delle tv non spiega quasi tutto il sillabario politico a venire, a partire da Berlusconi che, pur avendo tre reti private e il controllo indiretto delle altre tre pubbliche, perde le elezioni del 1996 così come quelle del 2006 senza vincere quelle del 2013. Ma soprattutto i veri fatti politici rilevanti degli ultimi decenni sono nati e cresciuti, fino a piantare la bandiera su Palazzo Chigi, a prescindere dal favore del sistema televisivo se non addirittura nell'ostilità attiva del medesimo, per lo meno da quello di parte pubblica: la Lega, il Movimento 5 Stelle, Giorgia Meloni. Tutti fenomeni nati e cresciuti senza, se non contro, il sistema televisivo.
Per molto tempo la Lega non ebbe spazio in televisione, se non per essere rappresentata come un pittoresco fatto di folklore. Grillo e i suoi seguaci vinsero clamorosamente elezioni europee e politiche senza mai apparire in video. La prima donna presidente del Consiglio è arrivata a Palazzo Chigi senza avere neppure un rappresentante nel CdA dell'azienda di Stato.
Inoltre la par condicio può essere tranquillamente elusa, come abbiamo visto nei decenni. Basta che il messaggio politico più o meno chiaro, se non lo slogan elettorale, sia affidato surrettiziamente a un programma di approfondimento anche di cronaca nera: oppure a un personaggio pubblico (cantanti, attori, registi, sportivi) sprovvisto di codice a barre di partito.
In definitiva, la par condicio è soprattutto irrispettosa nei confronti degli italiani. Perché li considera un po' come bambinoni mal cresciuti, facilmente abbindolabili, che vanno protetti da se stessi, secondo una visione pedagogica propria di altre normazioni che in questo caso i fatti sistematicamente smentiscono.
La par condicio è soprattutto uno dei fossili di un tempo svanito. Berlusconi non c'è più, le reti nazionali sono molte più di sei, non c'è più nemmeno Umberto Eco che alla vigilia delle elezioni del 2001, proprio sul tema dello strapotere mediatico del Cavaliere, vedeva all'orizzonte “l'instaurazione di un regime” avvertendo che quelle sarebbero state le ultime elezioni libere, se non le ultime proprio. Berlusconi vinse quelle elezioni, permise però e quindi perse quelle successive, quindi non c'è stato regime e siamo ancora tutti qui. Come, è un altro discorso.
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