“Caso Zingaretti” e il caos della sinistra

di Paolo Lingua

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“Caso Zingaretti” e il caos della sinistra

La situazione critica di tutta l’area della sinistra, a cominciare dal Pd, era decollata in coincidenza della nascita del governo di Mario Draghi. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono la conseguenza d’una crisi che era in vita da tempo con una serie di contrasti sotto la superficie del partito. Che cosa accadrà? Difficile, molto difficile da prevedere perchè, come ci era accaduto di sottolineare non molti giorni fa, la nascita del governo Draghi, con un sistema decisionale verticistico e centrato soprattutto sui ministri tecnici, non poteva che portare alla luce i contrasti interni dei partiti e delle coalizioni.  Il M5s è in corsa verso una complicata forma di deflagrazione, con la spaccatura tra Grillo e Casaleggio e la nascita di correnti-tribù disparate nella forma e negli obiettivi. Non mancano divisioni anche nei piccoli partiti dell’estrema sinistra. Infine, è imploso il Pd.  Difficile chiarire la complessa rete di contrasti. C’è infatti chi vuole un asse “di ferro” con i grillini, sia a livello nazionale sia a livello di amministrazioni locali. C’è chi diffida invece dell’alleanza organica con i grillini e anche con l’estrema sinistra perché la ritiene una trappola senza vie d’uscita. Ci sono i nostalgici della politica renziana e che non sono andati con Italia Viva solo perché il suo indice di preferenze appare molto basso. C’è chi vorrebbe una linea di assoluta autonomia.  Queste divisioni strategiche però nascondono anche ambizioni personali differenti.  Assistiamo così a guerre di partito interne mentre, per molti aspetti, la linea del governo va avanti per conto suo.

Nel frattempo le elezioni amministrative di allontanano, spostate, per via della pandemia, al prossimo ottobre e forse sono un respiro di sollievo per i partiti dilaniati dalle risse interne, con particolare riferimento alle sfide nei grandi comuni dove non sempre (per non dire quasi mai) c’è l’accordo per una strategia comune e per la scelta dei leader locali da far scendere in campo, visto che sui sindaci uscenti non c’è quasi mai accordo, in particolare nell’area del centrosinistra. Per adesso, sempre restare in casa del Pd, le reazioni sono scontate e ammantate di retorica: si chiede a Zingaretti di recedere dalle dimissioni e di tornare al vertice del partito invocando un’unità generale. E’ una sorta di teatro più che prevedibile, anche perché le correnti e i dissensi rimarrebbero come prima, sia pure sotto il mantello d’una unità in chiave moralistica. Anche perchè il regolamento di conti nel partito verrebbe spostato verso i tempi delle elezio0ni amministrazioni amministrative se non addirittura dopo, anche per disporre di risultati elettorali sui quale fare perno pe riprendere tutti i temi della discussione.

Il vero problema del Pd  è l’incertezza su quale direzione andare: è forse più pratico e utile  cercare voti al centro, visto che né Berlusconi né Renzi sono riusciti a compattare un voto moderato che sinora si è disperso sino a disgregarsi? Oppure vale la  pena di saldare l’accordo sinistra  con il M5s e Leu? Ma i grillini quando sono solidi e affidabili? E come è valutabile in termini numerici di voti l’estrema  sinistra? E le scelte d’una simili coalizione sono  sempre riconducibili alla linea d’un elettorato di sinistra ma che però ha anche un ruolo sociale di ceto dirigente e punta alle grandi strategia per la ripresa economica quando cesserà la pandemia? Sono ondeggiamenti che, obiettivamente, hanno coinvolto Zingaretti, sin dalla sua ascesa al vertice del partito. E che certamente sono pesati in questi mesi  in cui si è dovuto convivere con l’asse dei pentastellati? La sensazione che si avverte è che Draghi andrà avanti per la sua strada: i partiti sempre più deboli tutto sommato gli fanno comodo anche perché non possono permettersi il lusso di far saltare il governo.  Ma, alla fin dei conti, si va avanti giorno dopo giorno. Più che prove di forza in politica emergono  prove affannate di debolezza.