“Sogno tutte le notti la sagoma di quel giovane che mi aggredisce”
di Redazione
3 min, 6 sec
ll racconto del sovrintendente di polizia ferito da Jefferson Tomalà poi ucciso da un altro agente
“Mi dispiace molto per la morte di quel ragazzo, ha la stessa età di mia figlia e immagino lo strazio e la rabbia della mamma, ma il mio collega non poteva altro che sparare per evitare che quel ragazzo uccidesse me”
Paolo Petrella, 57 anni, è il sovrintendente di polizia della questura di Genova rimasto ferito da 8 coltellate da Jefferson Tomalà, 20 anni, (nella foto) l'ecuadoriano poi colpito e ucciso con sei colpi di pistola da Luca Pedemonte, l'agente delle volanti collega di Petrella per questo accusato di eccesso colposo di legittima e oggi assolto in primo grado dai giudici.
La tragedia si è consumata nel giugno dell'anno scorso nella casa di Tomalà, a Sestri Ponente: gli agenti erano stati chiamati sul posto dai familiari del ventenne preoccupati perché il giovane si era ferito con delle lamette ed, in preda ad una crisi, si era rinchiuso in camera dopo una lite con la compagna che si era portata via il loro figlio neonato.
Petrella dal giorno della tragedia non è ancora rientrato a lavorare perché ha riportato lesioni permanenti ad un braccio, contusioni alla testa ed è ancora molto scosso per l'accaduto. “Rivedo quella scena ogni notte, anche se non rivedo mai il viso di quel ragazza ma solo la sagome che mi viene addosso” ha confidato ai colleghi.
Oggi l'esperto sovrintendente quando ha appreso dell'assoluzione del collega non ha voluto parlare con il giornalisti, ma come a sfogarsi ha raccontato il suo stato d'animo ai colleghi delle volanti.
“Noi non abbiamo sbagliato l'intervento. Quando siamo entrati nella camera quel ragazzo era disteso su un letto con una coperta addosso, sanguinante perché si era ferito con delle lamette, le mani non si vedevano quasi mai, ma indossava dei guanti da lavoro, come a proteggersi, lì ho capito che stava meditando qualcosa, io da capo pattuglia mi sono avvicinato per parlargli, per calmarlo. Quando ha visto che avanzavo mi ha detto poche frasi, che non dimenticherò mai, “Come mai avete i guanti? Come mai siete tanti? Mandali via tutti sennò ammazzo tutti”. Io ho avuto il tempo di rispondere che i guanti li indossiamo tutti per prevenzione, e lui, mentre accompagnavo fuori dalla camera il fratello, è partito come una molla, si è avventato con il coltello in mano, è stato allora che il mio collega ha estratto lo spray al peperoncino e glielo ha spruzzato addosso per calmarlo, ma è stato inutile, anzi, come impazzito ha accoltellato anche il mio collega, è stato allora che sono intervenuto io, lui mi è saltato addosso, e ha continuato a farlo anche quando ero a terra, colpendomi più volte con il coltello, anche alla schiena, mi colpiva con cattiveria e in modo metodico, una volta a destra, poi al centro, quindi a sinistra. Era come impazzito. Ha continuato a farlo anche quando mi sono accasciato, per fortuna mi sono piegato per evitare i fendenti, perché una coltellata mi ha fratturato la gabbia toracica e ha sfiorato il cuore. Pochi centimetri e oggi non sarei qui. É stato a questo punto che il mio collega ha estratto la pistola e fatto fuoco, e forse lo ha fatto anche troppo tardi. Ma nonostante fosse stato colpito lui continuava ad accanirsi contro di me. Io ero a terra e cercavo di difendermi scalciando, e in quei momenti ho pensato che mi avrebbe ucciso. Poi quando è finito tutto e l'ho visto accasciato a terra non ho più pensato a me, al fatto che ero vivo per miracolo, ma pensavo a quel ragazzo morto che poteva essere mio figlio. Noi eravamo arrivati nella casa per salvarlo, ed invece è andata così. Ma non potevamo fare altro e non abbiamo sbagliato, io ho provato a parlargli, come ho sempre fatto in interventi come questi, e ci ho provato sino a quando non ci è saltato addosso...”.
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