Quel 'Filo dell'orizzonte' che lega Antonio Tabucchi alla Genova degli anni di piombo
di Stefano Rissetto
La morte di Barbara Balzerani ha riportato di attualità una polemica ingaggiata dal narratore pisano, che aveva scritto pagine importanti sulla nostra città
Di cosa parliamo, quando parliamo di anni di piombo? L'interrogativo riaffiora dal pozzo dei decenni e della dimenticanza, stavolta per la morte di Barbara Balzerani, scomparsa lunedì scorso. Presente nel commando di via Fani, "quando i fiori - come scrisse Ezio Mauro - cedono la parola alle pistole", compartecipe diretta di omicidi tra cui quello del magistrato Girolamo Minervini, uscendo dalla scena di questo mondo l'ex terrorista si è portata via molti segreti, qualche rimpianto, le colpe pagate e la luce buia e remota delle stelle spente.
Ha riacceso in compenso sentimenti contrastanti. Donatella Di Cesare, docente di filosofia alla Sapienza, l'ha salutata con un messaggio empatico pubblicato e cancellato in un niente, come il lampo pascoliano aperto e chiuso nella notte nera. E' stata la "Notte della Repubblica", il tempo percorso a mano armata dalla Balzerani. Della cui vita è ricomparso, quasi un disguido, l'episodio fossile di una controversia di fine millennio con Antonio Tabucchi, scrittore scomparso nel 2012 a 68 anni.
Era il 1998 e la Balzerani, come molti ex militanti del terrorismo, aveva scelto la strada della memorialistica, pubblicando per Feltrinelli Compagna Luna. Tabucchi era impegnato da tempo in un altro tipo di militanza, quella letteraria di venatura civile: nel 1994, all'avvento del berlusconismo, aveva scritto Sostiene Pereira, secondo un trasparente parallelismo tra il Portogallo di Salazar e quella che secondo lui stava per diventare l'Italia; attorno al caso giudiziario sorto per il processo sul delitto Calabresi si era vocato a una ferma difesa dell'innocenza di Adriano Sofri, dedicandovi molte pagine tra cui spicca il racconto Il battere d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino?, nella raccolta L'angelo nero del 1991, tre anni dopo gli arresti di Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani sulla base delle dichiarazioni di Leonardo Marino.
Insomma, Tabucchi non era certo collocabile al di fuori della sinistra. Eppure, come a suo tempo i brigatisti erano stati isolati e "scomunicati" dalla sinistra ufficiale facente capo al PCI sull'asse Pecchioli-Cossiga, così il narratore pisano-lusitano scrisse un tagliente e sarcastico commento per il "Corriere della sera", del 5 luglio 1998.
Sostenne Tabucchi, in quello scritto: "Se il linguaggio delle Brigate rosse era rivelatore nei volantini che facevano trovare nelle cabine telefoniche negli anni ‘70, quello dei libri dei loro maggiori esponenti, vent’anni dopo, non è meno rivelatore. E’ un fast - food di manualistica rivoluzionaria dove si danno la mano, a loro insaputa, un Lenin di propaganda ed un D’Annunzio di periferia, una mistica militare, reticenze, allusività, stereotipi, il linguaggio delle sentinelle del colonnello Gheddafi ed un kitsch che ricorda i libretti di Henver Hoxha, i sentimenti di Sanremo e l’oggettistica dei santuari dove piangono le madonne".
E ancora: "Il nostro Paese ha vissuto davvero momenti tragici: tensioni sociali altissime, tentativi autoritari, servizi segreti mefitici, bombe assassine, manovre oscure di Stati stranieri, corruzioni, infamie. Ma sentita raccontare così, questa non è una tragedia, ma solo la scadente rappresentazione d’una filodrammatica di paese dove il funesto dà il braccio al dolciastro. Non si chiede a chi visse tali esperienze (e che soprattutto le fece vivere agli altri) che vent’anni dopo ne parli da Dostoevskij, o magari solo con l’ombra d’un dialettico dubbio. Ma chi decide di affrontare un simile argomento attraverso la scrittura deve avere il coraggio di scendere sino al nodo più profondo, sino al «cuore di tenebra». Se non ce l’ha, mantenga un decoroso silenzio, che e’ un’altra forma di coraggio".
Si disse anche che Tabucchi, nome di prestigio e di punta del catalogo Feltrinelli, avesse posto un aut-aut all'editore italiano che alternava con Sellerio: o io o lei. Vero o falso che sia stato, fatto sta che la Balzerani non pubblicò mai più per la casa milanese.
Di là dal rancore e dalle nuvole, nella storia che con la Balzerani vede spegnere un'altra delle lampade dietro le finestre del castello, Tabucchi scrisse almeno altre due pagine importanti. Il primo è Il filo dell'orizzonte del 1986: non solo uno dei libri più veri e sinceri mai dedicati a una Genova peraltro mai nominata, la città dove lo scrittore aveva avuto la prima cattedra di portoghese di una carriera universitaria poi chiusa a Siena, ma una reinterpretazione letteraria e quasi metafisica del mistero dei misteri del terrorismo a Genova. Nel romanzo breve, il protagonista (Spino, richiamo a Spinoza) compie una personale indagine su un morto ammazzato senza nome in un conflitto a fuoco. E senza nome era rimasto a lungo Riccardo Dura, uno dei brigatisti uccisi nel covo di Oregina dagli uomini del generale Dalla Chiesa e reputato l'autore materiale dell'omicidio di Guido Rossa. L'inchiesta letteraria finisce nel buio, anche quella giudiziaria resta ancora intrisa di oscurità. E proprio alla figura inafferrabile di Dura ha dedicato un saggio monumentale lo storico genovese Sergio Luzzatto, quel Dolore e furore che si pone l'ambizione di riassumere la vicenda degli anni di piombo nella nostra città.
Ma Tabucchi, pochi mesi prima del "Filo", in otto pagine appena aveva codificato quella "banalità del male" che nessuno ha mai intravisto nella vicenda del terrorismo italiano, se non in sporadici squarci grotteschi come l'ammissione di alcuni militanti di ascoltare di nascosto l'uno dall'altro i dischi di Lucio Battisti, considerato nemico del popolo; oppure la confessione, resa nell'aula bunker dai protagonisti del sequestro, che Moro era stato rapito non tanto perché architetto del compromesso storico e come tale esecrato dai servizi di USA, URSS e Israele, quanto perché bersaglio più vulnerabile di Andreotti, obiettivo iniziale poi accantonato.
Quelle otto pagine si intitolano Piccoli equivoci senza importanza, come il titolo di questa rubrica scoperto omaggio, certo, ma propriamente come la raccolta di racconti che sfiorò la vittoria al Campiello. Con linguaggio secco e impassibile, fa scorrere la vicenda di un gruppo di amici, in cui si giocava a chi fosse il più rivoluzionario del reame, non tanto per sopravanzare gli altri fermi a un blando riformismo, quanto per far colpo su una ragazza dai capelli rossi. “E poi sapete com’è, succede che la parte che uno si assume diventa vera davvero, la vita è così brava a sclerotizzare le cose, e gli atteggiamenti diventano le scelte". Forse è andata davvero così, un piccolo equivoco senza rimedio.
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