Perché in Liguria il commercio è sempre in crisi?
di Paolo Lingua
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Il Punto di Paolo Lingua
Vale la pena di partire dai dati sullo stato del settore commerciale a Genova e in Liguria. Nel 2018 il saldo negativo tra nuovi occupati e chi ha perduto il lavoro a tempo indeterminato è stato di oltre 5 mila posti (poco più di 9000 nuovi e 14 mila disoccupati). Un andamento che segna una linea costante del 2016 e del 2017, perché l’ultimo dato con un lieve valore positivo risale al 2015. E non c’è da farsi illusioni né per quest’anno né per il prossimo.
Si rischia di vedere chiuse, tra grandi e piccole, due imprese al giorno. Questo dato – ufficiale e incontrovertibile – deve far riflettere, se si pensa che la Liguria e i suoi centri maggiori a cominciare da Genova sono sempre stati caratterizzati da una vita commerciale fiorente, con un infittirsi di nuove aziende e di crescita occupazionale.
La prima obiezione che si può cogliere a questo proposito è che forse, nel corso degli anni, si sono moltiplicate troppe microimprese che non reggono più sul mercato e che, ormai, si resiste solo se le dimensione delle aziende raggiunge un certo livello.
Ma il problema, molto probabilmente, va oltre alla diatriba che da tempo esiste tra il piccolo commercio e i supermercati e forse la situazione ha cominciato a risentire delle crescita delle vendite on line. Un discorso molto complesso che meriterebbe un approfondimento da parte delle associazioni di categoria e delle istituzioni. La crescita delle presenze turistiche, anche collegate al fenomeno del crocierismo, sia pure con presenze “mordi e fuggi”, non basta a chiarire una situazione complessa.
E’ più che probabile che per approfondire la problematica della crisi in atto si debba andare a una serie di situazioni che si intrecciano: calo delle nascite, invecchiamento della popolazione con calo demografico, crisi della domanda, crescita della crisi economica che riduce i consumi. Sarebbe interessante individuare, accanto alla situazione del commercio e del terziario in generale, i rapporti diretti e indiretti con il settore industriale, che a sua volta è in crisi, perché una economia di tecnologie avanzate non ha sostituito certamente la vecchia industria tradizionale.
In Liguria, tra l’altro, la cosiddetta produzione “primaria” come era definita nei vecchi saggi di economia è diventata industria “matura” e quindi fortemente ridimensionata nei numeri degli occupati e negli investimenti. Considerato poi che buona parte di questa grande industria era di matrice statale e pubblica se ne spiega il declino e l’assottigliamento.
La buona tenuta dei sistemi portuali e di quanto attiene allo shipping e ai trasporti non basta a riequilibrare la situazione e soprattutto a ridare vigori al terziario che di fatto sta perdendo un ruolo trainante tenuto saldamente per decenni. E’ indubbio che, per certi aspetti, anche se per il momento il rapporto diretto non è rilevabile e dovremo esaminare gli esisti delle analisi del 2019, anche il crollo del ponte Morandi inciderà sulla situazione generale: per almeno un anno e mezzo avremo quartieri che soffriranno nel settore commerciale, limiti di spostamenti e di trasporti, chiusura coatta di piccole medie imprese soprattutto commerciali e artigianali, rallentamento delle imprese di maggiori dimensioni.
Tutto questo potrà forse far segnare una ripresa a partire dal 2021, quando giocheranno sul sistema lavoro-imprese-investimenti anche elementi che potremmo definire “psicologici” e potrà tornare un ottimismo diffuso. Ma mentre i traumi come il crollo possono essere superati, le crisi striscianti e di sistema sono più insidiose. E’ quello il campo dove dovranno intervenire la sfera pubblica e la sfera privata.
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