La triste storia delle cosche in Liguria iniziata nel dopoguerra
di Paolo Lingua
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Il Punto di Paolo Lingua
La odierna condanna di politici e amministratori di Lavagna, oltre che a esponenti di cosche, per una brutta storia di ‘ndrangheta infiltrata nella cittadina del Levante ligure ha riaperto una complessa e non lieta riflessione sulla presenza e sulle infiltrazioni di malavita organizzata in Liguria.
Oggi si parla di presenze mafiose (usando questo termine in generale) in molte regioni italiane. Basterebbe pensare a quanto è emerso nel Lazio e nell’area romana, ma il discorso vale anche per il Nord e, inoltre, vale la pena approfondirne le dinamiche evolutive e sociologiche. Non è un esercizio intellettualistico: le mafie hanno complesse problematiche di evoluzione e quindi di organizzazione. Ma soffermiamoci sulla Liguria.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, con la modificazioni socioeconomiche del nostro Paese, c’è stata una importante migrazione dal Sud al Nord. Ma non s’è trattato soltanto dell’arrivo in aree industriali come quelle lombarde e di Torino, dove l’attrazione maggiore era il boom industriale e produttivo, un fenomeno che s’è accentuato attorno alla metà degli anni Cinquanta.
In Liguria c’era stato invece, nella seconda metà degli anni Quaranta, una presenza crescente nel Ponente tra l’Albenganese e in tutta la provincia di Imperia di famiglie calabresi. Trovarono lavoro soprattutto in settori dell’agricoltura (settore oleario e viticultura) e in particolare nelle serre dove si puntava alla produzione floreale e ortofrutticola. Il passaggio successivo, soprattutto del lavoro maschile, fu quello dell’edilizia.
Il boom turistico e la crescita edilizia provocò, quasi come effetto naturale, l’arrivo di piccoli (e poi maggiori) esponenti della ‘ndrangheta e, con la crescita dell’immigrazione giocata sui richiami fisiologici familiari, si passò anche al piccolo e medio commercio, con l’imposizione strisciante del sistema del “pizzo”.
Il sistema malavitoso cercava di evitare fatti di sangue, giocando soprattutto sulle pressioni per così dire psicologiche per spremere denaro. Gli imprenditori locali finirono per accettare le assunzioni richieste dai clan per lavorare “in pace”. Ma nel frattempo il fenomeno da Ponente si era spostato a Genova, la “capitale dove però si andò oltre, perché giravano affari più grossi, anche nel settore edilizio e nel sistema degli appalti.
Per la verità, in tutta la prima e nella seconda fase dell’infiltrazione mafiosa, il rapporto con il mondo politico e istituzionale rimase ai margini. Va riconosciuta un particolare attenzione peculiare della Dc tavianea ad evitare contaminazioni. Ma va ricordato che Paolo Emilio Taviani, leader indiscusso della politica ligure per trent’anni e ancora forte sino alla prima metà degli anni Novanta, era stato per lustri il ministro dell’Interno, controllando questure e prefetture.
Taviani era al tempo stesso duro e soft e faceva giocare d’anticipo, puntando a prevenire e a confinare i fenomeni. Nel frattempo però i fenomeni mafiosi si allargavano in tutta la Liguria. Così, finita definitivamente l’era tavianea e la Prima Repubblica, si passò da una politica “cinica e furba” alla fragilità della politica stessa, con il crollo dei partiti organizzati.
Così si è arrivati – è storia dell’ultimo quindicennio – a comuni commissariati, a inchieste, a processi, scoprendo pesanti lacune e coinvolgimenti di personaggi locali (più nelle Riviere che a Genova). Sino alla spiacevole vicenda di Lavagna, dove la decapitazione d’una generazione politica, è stata mal digerita dall’opinione pubblica più abituata a dare per scontati simili episodi semmai nell’estremo ponente, dove però alcuni sindaci, dopo pesanti commissariamenti, annunciano di voler rialzare la testa mentre tutti i riflettori sono puntati sulla ricostruzione del Ponte Morandi per evitare la presenza mafiosa negli appalti della ricostruzione.
Con il nuovo ponte una nuova Liguria? Vorremmo poterlo sperare.
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