La Liguria, una terra che frana
di Paolo Lingua
La Liguria è una terra che frana. Non c’è pace al tormento geologico al quale da alcuni decenni è sottoposta. E ha ragione uno dei più eminenti docenti di geologia del nostro territorio, il professor Alfonso Bellini a ricordare che ormai no n basta “rimediare” ai danni subiti ma ormai occorre soprattutto prevenire. Il nostro territorio, da Ventimiglia alla Lunigiana, sua sulla costa, sia sulla montagna, Appennini e Alpi senza discrimine, ha sofferto, quando il maltempo ha cominciato a flagellarci e si sono manifestate le prime differenze climatiche , ha subito in un primo momento l’4esondazione dei suoi selvaggi torrenti. Conosciamo la vicenda dei nostro corsi d’acqua (secondo i geografi sembra che solo il Centa, ad Albenga, possa essere definito tecnicamente “fiume”) che per dieci mesi all’anni sono quasi in secca e poi, alle prime piogge si gonfiano impietosamente. Nel 1970, solo per restare a Genova abbiamo avuto le violente esondazioni del Leira, del Cerusa, del Rio San Pietro, del Torbella e in particolare del Polcevera e del Bisagno con i loro affluenti incontrollati e abbandonati da sempre alla peggiore incuria. In quarant’anni, salvo qualche eccesso, si è cominciato a lavorare – ma ci sono voluti danni pesanti e decine di morti – per mettere a regime i torrenti, anche nel resto della Liguria. Se avremo un pizzico di fortuna entro quattro o cinque anni le esondazioni saranno controllate e controllabili, in linea di massima. Ma ora, sempre per via del cambiamento di clima, siamo alle prese con fenomeni assai più complessi: le mareggiate che, sospinte dai venti, aggrediscono le spiagge, gli stabilimenti balneari e ormai anche gli abitati più prossimi, portando pesanti distruzioni che poi ricadano anche sulla portualità turistica e sul fenomeno delle vacanze, una delle fonti maggiori della nostra economia. In questo caso la situazione è assai più complessa perché forse, in molti casi ci sarà da rinforzare, da spostare più al largo e da rialzare le dighe che proteggono l’accesso ai porticcioli già esistenti e di realizzare altre forme di protezione nei confronti dei litorali più esposti, per salvaguardare le spiagge e le strutture costiere. Un progetto assai complesso che va realizzato mettendo a punto la situazione del mare, delle correnti e dei fondali. Infine, ma il problema non è l’ultimo, sta assumendo un aspetto problematico la questione della fragilità del terreno. Le piogge, anche se recentemente si siamo parzialmente salvati dalle esondazioni e dagli straripamenti stiamo subendo con una crescita incontrollabile il fenomeno delle frane. Abbiamo territori abbandonati e non più monitorati che cedono; abbiamo strade di campagna e di montagna che si sfaldano, un giorno dopo l’altro, ma non solo quando piove in abbondanza, come è capitato al di sopra di ogni media in questo scorcio d’autunno, ma anche nei giorni cosiddetti asciutti perché la terra, abbandonata e fragile, adagiata su una faglia di roccia impermeabile, si sbriciola e frana. Abbiamo visto la vicenda del ponte autostradale della A6 travolto da una massiccia frana di terriccio, ma abbiamo crolli e smottamenti massicci e distacchi di roccia sia a levante, sia a ponente, ma non solo nelle zone abbandonate ma anche sulle strade statali e provinciali frequentate. Ma constatiamo fenomeni simili anche nei centri abitati o dove si è realizzato, specie dal dopoguerra a oggi, negli anni del “boom” edilizio quando si è costruito senza alcun controllo. In parole povere, tutto è a rischio. E non è una analisi felice. Occorre superare la cultura dell’emergenza e andare al di là della strategia del rattoppo. C’è un salto culturale da fare ed è un passaggio obbligatorio per evitare future tragedie che non sono più sopportabili né accettabili.
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