Il percorso sofferto di chi ha vissuto e vive sotto il ponte Morandi
di Paolo Lingua
3 min
Il Punto di Paolo Lingua
Entro la fine del mese, come ormai tutti sanno, sarà demolito un altro palazzo, ormai abbandonato senza speranza, e poi esploderanno le pile ancora in piedi di quello che ormai “fu” il ponte Morandi, per decenni simbolo grafico d’un territorio e ora memoria dolorosa da cancellare.
La storia dei prossimi anni ci porterà a processi complicati e certamente di lunga durata che già preludono a battaglie di periti e superperiti, a discussioni infinite su responsabilità dirette indirette che, a ogni tappa, riapriranno le ferite dolorose di chi ha perduto i propri cari e di chi ha perduto la propria casa e la propria identità di vita.
La vicenda è tutt’altro che un incidente da dimenticare e, purtroppo, del crollo drammatico parleremo per anni, come è già accaduto, anche a casa nostra, per i drammi delle alluvioni o, altrove. Basterebbe pensare ai terremoti, all’alluvione di Firenze o al crollo della diga del Vajont.
Queste riflessioni emergono alla vigilia delle prossime demolizioni, quelle delle prossime settimane che saranno un passaggio, obbligato ma con effetti positivi verso la strada della ricostruzione che deve segnare un obiettivo concreto di ripresa d’una comunità colpita da un disastro inatteso, ma anche un simbolo d’una città che punta a una ricrescita e a una trasformazione dal segno positivo.
Non ha torto il sindaco – commissario Marco Bucci quando insiste sulla rigenerazione e sul recupero. In questo caso non è retorica e non è propaganda, ma un tentativo di convincere i genovesi che dalla disgrazia deve scaturire un “dream” all’insegna dell’ottimismo del cuore e della mente.
Certo: le prossime prove non sono piacevoli. Il crollo in sé delle pile dei terrazzi del ponte, degli edifici sino all’anno scorso abitati da centinaia di persone, il fragore devastante, i cumuli di polveri e di detriti, i rischi dell’amianto disperso nell’atmosfera, l’allontanamento di oltre un migliaio di residenti dalle loro case sono eventi traumatici. Cui seguiranno altre demolizioni e complesse rimozioni di quel che è rimasto al fine di rendere umano e vivibile il territorio che ha sofferto il grande dramma e che continuerà a soffrire ancora per molti mesi, anche quando il quartiere risorgerà con una nuova fisionomia, ci auguriamo gradevole a trascinante.
Poi, dall’autunno – ci auguriamo – dovrebbe decollare la ricostruzione che in meno di un anno dovrebbe concludersi e far riprendere traffico, trasporti e vita normale dei quartieri tra Sampierdarena e la Valpolcevera. Il lavoro, i commerci, la vita normale dovrebbe riprendere e anzi, come si è detto, puntare a una ricrescita.
Potrebbe davvero essere una grande occasione per ridisegnare quartieri che hanno avuto un ruolo strategico nel corso d’oltre un secolo per quel che riguarda la storia dell’economia di Genova e, indirettamente, della Liguria. Ma prima di rivedere splendere il sole, occorre passare per la notte buia della demolizione e tante piccole e grandi sofferenze e quindi entrare a piccoli passi sul sentiero d’attesa della ricostruzione.
Ecco perché le prossime settimane saranno un ulteriore banco di prova per la gente della Valpolcevera e di quella fascia che collega i quartieri di Certosa, Rivarolo Teglia ai difficili collegamenti verso Cornigliano e verso Sestri Ponente, tutto un sistema di collegamenti che è tutt’ora in sofferenza.
C’è da sottolineare che la necessità ha fatto virtù: basterebbe pensare ai passaggi alternativi e alle comunicazioni che erano progettati da tempo e poi recuperati in tutta fretta ma con efficienza di fronte all’urgenza dei fatti. Tutta Genova deve essere solidale con la gente coinvolta direttamente o indirettamente dal crollo del ponte Morandi. Sono i cittadini che hanno sofferto una pena ingiusta. Meritano un civile e commosso rispetto.
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