Il futuro di Banca Carige si gioca nei prossimi due mesi
di Paolo Lingua
I prossimi due mesi si preannunciano come un arduo banco di prova per l’avvenire della Banca Carige. Nella notte di ieri, in un contesto concitato per mandare comunicati (ma ormai il sistema di comunicazione dell’istituto genovese ormai di muove così), in una densa nota carica di dati tecnici si arriva a una comunicazione dei vertici sottolineata in grassetto “…sussistono significative incertezze in merito alla prospettiva della continuità aziendale della Banca e del Gruppo….qualora il presupposto della continuità aziendale venisse meno, il valore delle azioni potrebbe essere azzerato, incorrendo così l’investitore in una perdita totale del capitale investito….sussiste un alto rischio che…le azioni della Banca Carige non siano ammesse alle negoziazioni. Pertanto alla Data del Prospetto sussiste un rischio di illiquidità delle azioni della Banca Carige”. In parole povere, nelle ultime settimane quello che sembrava l’obiettivo concreto d’una ricapitalizzazione di 700 milioni di euro (più altri 200) anche grazie a opera della banca di Trento e d’una ristrutturazione interna dell’istituto con tagli delle spese e del personale non sembra aver dato gli esisti sperati.
I vertici – i tre commissari – hanno verificato pesanti perdite di gestione sin dall’inizio del 2019, che si sono aggiunti a perdite precedenti, e per altri aspetti non si è andati oltre ai pesanti tagli legati per ora a prepensionamenti dei dipendenti e alla soppressione di decine di filiali sia in Liguria sia sul territorio nazionale. I provvedimenti di salvataggio per ora non sono bastati, tanto è vero che nei giorni scorsi è scattato un ricorso alla magistratura da parte d’un folto gruppo di piccoli azionisti.
E allora? I commissari – che già a quel che pare per legge non saranno riconfermati finito il loro mandato – hanno lanciato, o sono stati costretti a lanciare, una sorta di grido di allarme, anche perché sia la Bce sia la Banca d’Italia sembrano inclini a essere assai prudenti, in un momento nel quale si annunciano, a livello nazionale, non poche chiusure di piccole banche. Tutto sembra tornare in uno stato di assoluta incertezza, come del resto per la Carige avviene ormai da qualche anno. Che cosa potrà accadere se la crisi si accentuerà, se non ci sarà la ricapitalizzazione, se il titolo non potrà esser nelle condizioni di essere riammesso in Borsa, dopo che il suo valore era rimasto quasi annullato?
In un clima di tensione sindacale, di crescente polemica nel campo di piccoli azionisti che cosa potrà accadere? Molti guardano ai grandi azionisti, ma più che a Volpi o a Mincione, i riflettori, potenzialmente, potrebbero essere rivolti al Gruppo Malacalza che, sulla carta, detiene poco meno del 30% delle azioni della Carige. Ma gli uffici dei Malacalza ormai sono definiti nel linguaggio corrente “la baia del silenzio”. Si sa che l’azionista di riferimento non è d’accordo con la linea operativa adottata dai tre commissari. Non è una novità perché il Gruppo Malacalza ha sempre avuto un atteggiamento critico con ben tre gestioni che si sono susseguita, per non parlare e della quarta – la prima in ordine di tempo dopo l’inchiesta giudiziaria che ha travolto l’ex supermanager Giovanni Berneschi – oggetto d’una complicata richiesta di danni.
E allora? Difficile, se non impossibile, dare una risposta. E’ evidente che i Malacalza hanno in mente un progetto o un’azione diretta, di cui però non intendono parlare. Ma una banca è un prodotto delicatissimo che può essere messo in crisi con un battito d’ala di farfalla. I prossimi due mesi (alla fine di gennaio dovrebbe esserci un’assemblea degli azionisti) saranno quindi un passaggio ardito e difficile per trovare una quadra che, per il momento, si teme sia a rischio di perdita.
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