Didattica e pratica dialogica: il punto con la docente e scrittrice Giusy Randazzo
di Giulia Cassini
Dalle lezioni via Skype al libro sulla “Metodologia della Narrazione e della Riflessione”
La didattica è in continua evoluzione, ma in tempi di zona rossa questa necessità diventa ancora più evidente. Ne abbiamo discusso con la docente di filosofia e storia Giusy Randazzo, autrice del libro in prossima uscita nelle librerie “Metodologia della Narrazione e della Riflessione. Storia, metodi e strumenti” di Erga edizioni. A dispetto di quanto si possa pensare la didattica a distanza è complicata e faticosa: “Al momento, sì, facciamo lezione via Skype. Io insegno al liceo scientifico Fermi di Genova e nessuno di noi si è fermato -spiega Randazzo- I colleghi con cui lavoro a più stretto contatto in questo periodo - penso per esempio ai docenti del consiglio di classe che coordino -stanno facendo davvero un lavoro di squadra e sempre con il sorriso e pronti a dare il massimo. D’altronde siamo stati immediatamente spronati all’azione. Il nostro dirigente scolastico, Michele Lattarulo, ci ha invitato ad adoperarci per la didattica a distanza ancor prima che divenisse prescrittiva. Fino a oggi eravamo liberi di decidere come far lezione, ma con l’estensione della zona rossa a tappeto il passo successivo del dirigente scolastico Lattarulo sarà quello dell’uniformità dell’azione didattica”. Le sedute virtuali comunque non sono una passeggiata: si tratta di continuare a garantire standard alti e partecipativi. “ Il problema è che la didattica è comunque penalizzata. Il digitale è una risorsa per la lezione in presenza, ma essa rimane insostituibile. Ed è davvero insostituibile perché se il docente è un vero maestro allora saprà che la lezione che si serve del solo canale verbale è fallimentare sin dall’inizio. Credo – anzi, spero – che la lezione tradizionale abbia lasciato in un cantuccio l’immobilismo e il silenzio degli alunni come massima espressione di attenzione. La lezione è e deve essere sempre partecipata. Essa deve tener in debito conto la ricchezza e l’importanza degli aspetti non verbali e paraverbali che giocano il ruolo più importante nella decodifica dell’atto comunicativo. Insomma noi comunichiamo con l’interezza del nostro corpo-mente, per dirla con Alberto G. Biuso. Nella didattica a distanza si perde moltissimo dell’aspetto non verbale. Certo non come sui social in cui la comunicazione è spesso distorta proprio per l’assenza quasi totale degli altri canali comunicativi”.
Come si legge in anteprima nel libro, per fornire dati precisi, “ La comunicazione numerica, quella che avviene dunque mediante la parola ovvero il verbale, ha un peso pari al 7% dell’intero atto comunicativo, il paraverbale del 38% e infine a giocare il ruolo più importante è il non verbale la cui valenza è del 55%. Questa scoperta si deve ad Albert Mehrabian, il quale condusse due esperimenti nel 1967”. Oltre a questi fondamentali oggi si aggiunge una criticità: non sempre si dà il giusto peso all’ascolto. “Si fa un gran parlare di ascolto attivo ma troppo spesso si confonde l’ascolto con il semplice udire -precisa la docente- invece ascoltare è un’azione che coinvolge tutti i sensi. Questo è anche il motivo per cui riprendo nel testo il concetto di ipercomunicabilità di Alessandro Fersen. Oggi viviamo un problema di cui non ci rendiamo conto ed è proprio l’ipercomunicabilità. Il bisogno di comunicare sempre - e per sempre dico anche la notte quando per caso ci svegliamo e guardiamo il cellulare - e in qualsiasi contesto diviene quasi un’ossessione e ci fa perdere il contatto con la realtà. Finiamo così per approdare all’incomunicabilità, una vera assenza di comunicazione. Molti adulti e molti giovani quando si incontrano in un contesto reale e non virtuale trascorrono la maggior parte del tempo a chattare. Si isolano. Così anche se sono in compagnia, sono soli. Un paradosso di questa epoca, con tutti i rischi che questo comporta. Ed è un paradosso perché la comunicazione è un’attività che nasce dal bisogno originario dell’uomo di annullare la solitudine ontologica che avverte attraverso l’apertura all’altro”.
Il volume che presto approderà in tutte le librerie è interessante per tutti: operatori di settore, genitori, alunni, curiosi. Tratta diverse tematiche, ma il fulcro è la MNR (Metodologia della Narrazione e della Riflessione) nata nel 2004 e diffusasi già nel 2005 in 32 scuole della provincia di Genova. “Gli ideatori – Marta Russo, Roberto Peccenini, Maria Teresa Vacatello, Martina Campart e Laura Mancuso – avevano elaborato la metodologia grazie a due ricerche condotte negli anni precedenti nelle scuole di Genova e provincia – Partecipazione e solitudine nella scuola -si legge nel libro Erga- Solidarietà e bullismo (PSSB1 e 2) – che avevano fornito materiale prezioso su cui riflettere. Gli studenti stessi erano i protagonisti. Le loro risposte sembravano andare nella stessa direzione: il bisogno di ascolto. E sono stati ascoltati”. Una pratica dialogica rivoluzionaria e innovativa, ma anche un atteggiamento, che ha ricevuto il benestare scientifico nel 2010 con l’équipe di Claudio Baraldi dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Giusy Randazzo è stata tra le pioniere della MNR. “Ero arrivata dalla Sicilia da poco e il dirigente scolastico di allora (era il 2005) -racconta la scrittrice- mi invitò a frequentare il corso di formazione che l’associazione Il Moltiplicatore proponeva alle scuole. Andai soltanto perché non mi sembrò un invito ma una disposizione. Oggi ringrazio quel dirigente scolastico. Il gruppo d’origine – tutte donne – mi notò e io rimasi da allora con loro. L’unica ideazione che a me si può ascrivere è l’acronimo MNR. Sono stata io a proporlo nella prima pubblicazione che abbiamo fatto con Erga. Ritenevo che fosse più immediato e che destasse maggiore curiosità. Non mi sbagliavo.” Ma perché la MNR è differente dal dialogo? “La differenza tra la MNR e il dialogo in genere sta proprio nella struttura del focus. Insomma, è un dialogo cadenzato da tempi e da strumenti. Si inizia con una presentazione che dura al massimo cinque minuti e poi il facilitatore distribuisce la Scheda N.1, quella di Narrazione, in cui è riportata una breve storia tratta da altri focus già svolti e trascritti (perché noi trascriviamo tutti i dialoghi). Si tratta sempre delle parole di un alunno o di un’alunna, di un’altra classe e di un’altra scuola – a volte persino di un altro tempo – che sono riportate così come sono state dette o scritte con l’unica accortezza di usare uno pseudonimo per garantire l’anonimato. La storia della prima scheda si legge individualmente. Nella fase successiva la classe viene divisa in piccoli gruppi e insieme gli alunni si confrontano con la Scheda N.2, quella di Riflessione. Essa contiene poche domande – sempre aperte – che servono agli alunni per riflettere sulla tematica proposta. Questa fase che dura trenta minuti è molto importante perché è il momento in cui i ragazzi si confrontano e si ascoltano. Devono farlo perché altrimenti non possono rispondere alle domande e devono anche registrare le opinioni differenti. Generalmente però arrivano a una risposta condivisa. La terza fase è quella della plenaria. La classe si dispone a ferro di cavallo e il docente/facilitatore siede anche lui in un banco di fronte agli alunni. Accanto al facilitatore ci sarà l’osservatore. Così comincia il dialogo vero e proprio che dura 50 minuti. La fase di restituzione è l’ultima e ha una funzione metacognitiva. Essa serve a portare a consapevolezza alcuni approdi raggiunti insieme, ma è sempre dialogica e dunque partecipata. Il banco, in cui siedono facilitatore e osservatore, ha una funzione simbolica molto importante”. Non ha nulla a che vedere con le cattedre sulla pedana, in quella posizione di verticalità. A dimostrarsi interessante oggi nella didattica è semmai il rapporto complementare, dove il docente sa porsi davvero in ascolto. “In passato- spiega Randazzo- la distanza tra l’insegnante e gli alunni era sottolineata da tutti questi simboli disseminati nell’interno architettonico: la grande cattedra, la pedana, i piccoli banchi per gli allievi, la disposizione degli stessi banchi, della cattedra e della lavagna, il saluto deferente - in piedi, immobili e in silenzio - e persino il grembiule, che in quel contesto aveva un significato meno democratico di quello che oggi gli diamo, perché sottolineava la differenza tra il gruppo classe e il docente. Con questo non si vuol dire che oggi il rapporto sia paritetico, rimane sempre asimmetrico, perché c’è sempre il riconoscimento dei reciproci ruoli. Sedendo in un comune banco di scuola, però, il facilitatore e l’osservatore stanno lanciando un messaggio preciso: siamo in una posizione di ascolto pronti anche ad apprendere da voi. Continuano a essere docenti, ma sono in ascolto, accolgono questo bisogno di ascolto che tutti gli alunni, di tutta Italia e del mondo intero, avvertono. Finalmente si sentono ascoltati e finalmente imparano ad ascoltare. Per questo è nata la MNR”. Gli ideatori l’hanno creata perché avevano capito che l’esigenza primaria degli alunni era questa: essere ascoltati.
Un traguardo importante in continuo divenire, soprattutto in tempi dove i problemi sono quelli del bullismo e ancor di più del cyberbullismo e dell’antisocialità. “Laddove le problematiche sono però conclamate -dice Randazzo- la MNR interviene permettendo alla classe di trovare da sola le risorse per risolvere le problematiche e tali risorse rimarranno per sempre parte integrante dell’interazione del gruppo. In questo altro senso, sì, la MNR può aiutare nella risoluzione di problematiche simili”. Sono queste le motivazioni principali per cui si è diffusa la MNR, grazie all’associazione “Il Moltiplicatore”, di cui per molti anni è stata presidente Marta Russo. La Rete Sicurascuola è nata informalmente nel 2007 per un bisogno che è stato avvertito dai docenti che praticavano la metodologia. “Sono stati loro a portare le MNR in quasi tutte le scuole genovesi -conclude Randazzo- anche all’infanzia (pioniera in quest’ordine di scuola è stata Maria Grazia Furinghetti). L’esigenza di formalizzare l’attività di questi docenti e di facilitare i loro spostamenti ha spinto alla costituzione della Rete Sicurascuola. La mia attuale scuola, il Liceo scientifico Fermi, non ne fa parte eppure quest’anno abbiamo portato avanti un progetto di alternanza scuola-lavoro (oggi PCTO) che ci ha permesso di formare per la prima volta degli studenti nella pratica della MNR. Sono divenuti dei facilitatori, per intenderci. Io stessa, in qualità di loro insegnante, posso dirvi che è cambiato il loro modo di rapportarsi e di relazionarsi in classe. Riescono ad affrontare qualsiasi tematica con serietà e passione, nel pieno rispetto dell’altro e mettendosi costantemente in discussione. Questa classe oggi, in questo momento così difficile per tutti, ha mostrato da subito una maturità e una consapevolezza davvero sorprendenti”.
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