Ex Ilva, porto delle nebbie
di Paolo Lingua
L’accordo tra Arcelor Mittal e i sindacati genovesi di oggi pomeriggio è solo un “tampone”, frutto della dura reazione die lavoratori a una decisione pesante e ingiustificata dell’azienda. Riguarda, come potete legge in questa pagina nei servizi accanto, un numero più contenuto di lavoratori in cassa integrazione e una rotatoria di dieci giorni lavorativi su venti. Viene ridimensionata la valutazione eccesiva (o strumentale) della produzione di Genova per via del coronavirus e si spera che quando si arriverà al progetto finale di ristrutturazione a livello nazionale, lo stabilimento subirà tagli del personale minori di quanto per adesso temuto.
Ma come avevamo, purtroppo, anticipato nei giorni scorsi la situazione dell’ex Ilva è sempre più complessa e di non facile soluzione. O meglio, non è facile una soluzione che non pesi in maniera gravosa – e, per essere sinceri, profondamente ingiusta – sui lavoratori dipendenti e sull’indotto che è sempre di un certo peso attorno alle strutture siderurgiche. Per adesso è cominciato un conto alla rovescia (ma è l’ennesimo conto alla rovescia da tre anni a questa parte) con l’annuncia dell’ad di Arcelor Mittal , Lucia Morselli, che sarà presentato un nuovo piano industriale entro una decina di giorni. Al tempo stesso abbiamo dichiarazioni, di carattere generale, del governo per bocca del ministro dell’economia Roberto Gualtieri che indicano una disponibilità di una partecipazione pubblica nell’impresa, visto che Arcelor Mittal potrebbe quasi certamente ridurre la sua quota azionaria. Di fronte a questa situazione i sindacati confederali dei metalmeccanici proseguono la protesta, gli scioperi e i blocchi agli ingressi in un clima di contrasto e di assoluta diffidenza nei tre stabilimenti italiani: Tarando, Genova e Novi Ligure. A Genova la situazione s’è per ora parziamenmte calmata e lo sciopero rientrerà, ma non si è sicuri per quel che concerne l’immediato avvenire.
Ci sono molti aspetti ancora dubbi: a cominciare dall’annuncia della forte richiesta da parte di Arcelor Mittal di cass integrazione a causa del coronavirus. La multinazionale siderurgica dichiara che il lavoro a tempo pieno non potrà riprendere per il calo di richieste sul mercato, perché per via del virus molte imprese europee hanno ridotto o bloccato le loro produzioni. E’ una spiegazione contestata sul fronte sindacale perché invece pare che si siano richieste sui mercati e che invece i vertici aziendali sfruttino il coronavirus per puntare a un forte taglio dell’organico, come del resto già tentato nel recente passato. Ci si chiede inoltre – ma la domanda ondeggia nel vuoto – perché Arcelor Mittal abbia voluto acquisite l’ex Ilva se poi aveva interessi a effettuare pesanti tagli e abbia nascosto questo obiettivo al momento dell’accordo con il governo italiano di allora. Ancora dubbi e domande senza risposta, anche perché il governo che aveva commissariato l’azienda, dopo il ritiro, tra processi e denunce, degli ex proprietari, ovvero il gruppo Riva, aveva puntato sulla ripresa d’un settore che nella storia italiana era sempre stata una eccellenza, protagonista degli anni del boom.
Oggi il gruppo siderurgico ex Ilva conta, sulla carta circa 11 mila dipendenti nei tre stabilimenti, anche se Taranto rappresenta oltre i tre quarti della struttura produttiva con l’esclusiva della cosiddetta produzione “a caldo” che poi è quella sotto l’indice delle proteste dei cittadini e delle istituzioni locali per via del grave inquinamento che ha anche portato gravi problemi sanitari alla popolazione. In questa chiave, non va dimenticato, sia la regione Puglia, sia le autorità locali, in questo sostenute in particolare dal M5s, hanno accentuato la protesta arrivando, all’estremo, a chiedere la chiusura dello stabilimento con l’istanza al governo di dar vita ad attività alternative. I problemi di inquinamento non sono presenti né a Genova né a Novi Ligure, perché in quelle strutture produttive si lavoro solo a stampare “a freddo” lamine in acciaio. Genova e Novi Ligure, nel corso degli anni, hanno ridotto al minimo la loro occupazione: Genova ha perduto persino quella che era, prima della vendita ai Riva, la “capitale dell’acciaio” In Italia con una direzione generale in Carignano che occupava quasi duemila tra dirigenti, tecnici e impiegati, mentre nei due stabilimenti del Ponente lavoravano quasi 12 mila operai (con un indotto equivalente).
Ora, in un contesto tanto ingarbugliato, non è facile manovrare per trovare una soluzione non solo onorevole sul piano sociale, ma anche obiettivamente produttiva nei confronti di un mercato che è sempre stato florido e ricco. Il primo punto da chiarire è comprendere, al di là delòle fumisterie del passato, qual è il vero obiettivo di Arcelor Mittal. Vuole uscire completamente dall’azienda? Oppure vuole essere presente per controllare direttamente o indirettamente, ma con una quota e un impegno minori? E quali tagli reali vuole portare all’attuale organico già visibilmente ridotto nel corso degli anni? E quale potrà essere l’impegno – urgente e necessario – per ridurre l’inquinamento di Taranto e risanare l’ambiente urbano visibilmente compromesso? E, da punto di vista dell’azione del governo, quale potrebbe essere la percentuale azionaria di impegno? Tornerà a essere l’azionista di riferimento, tenendo allora Arcelor Mittal in quota di minoranza? Oppure, come qualcuno (in passato i renziani) aveva già suggerito, far entrare partecipazioni private (anche di imprese italiane) che in passato sembrano interessate ad acquisire l’ex Ilva? Tutto questo andrà chiarito, senza creare ombre di dubbi, come in passato. Occorrerà valutare la consistenza del piano industriale di Arcelor Mittal e andare diritti al dunque avendo di fronte una prospettiva chiara e senza ambiguità. Non si è più parlato dell’eventualità di inserire lo “scudo penale” per evitare denunce (inquinamento e alterazioni dell’ambiente con conseguenze gravi sulla popolazione) della nuova dirigenza, considerato che l’inquinamento è una responsabilità delle passate gestioni. Arcelor Mittal lo avrebbe preteso ma fu il governo, tra mille contrasti interni dei partiti della maggioranza, a non concederlo. Poi la multinazionale non fece più pressioni in questo senso, per cui si sospettò che la polemica fosse un pretesto per tagliare i posti di lavoro. Siamo dunque ancora nel “porto delle nebbie” dell’acciaio. Si attende, in un clima di guerra, il piano industriale che, però, non sarà una conclusione ma solo una base per cominciare a ragionare per trovare la soluzione finale. Quella seria e costruttiva.
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