“Salutiamoci bene”, il progetto che ridisegna la socialità nel post lockdown

di Redazione

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Un’idea basata sulle neuroscienze, promosso dagli studenti di 7 atenei italiani

Una nuova forma di saluto, un nuovo “rito” da condividere per contrastare la diffusione del Coronavirus e riscoprire al tempo stesso i valori più profondi del nostro essere umani. Sono questi gli obiettivi del progetto “Salutiamoci bene”, che propone un nuovo codice di comunicazione relazionale, post lockdown, basato sui principi delle neuroscienze, a tutela della salute dell'individuo ma anche della sua naturale propensione alla socialità. Promosso da alcuni studenti della Luiss Guido Carli, che hanno realizzato un cortometraggio e un video tutorial,“Salutiamoci bene” coinvolge allievi provenienti da altri 6 atenei italiani (Università La Sapienza di Roma, Accademia delle Belle Arti di Bologna, Accademia delle Belle Arti Macerata, Accademia delle Belle Arti di Roma, Conservatorio di Musica “Luigi Canepa” di Sassari, Università degli Studi Roma Tre), coordinati da Angelo Monoriti, avvocato e docente di negoziazione alla “Luiss”, ideatore e promotore dell'iniziativa, e da Maria Rita Parsi, psicopedagogista e piscoterapeuta, presidente della Fondazione Movimento Bambino ONLUS.

“Dopo la quarantena le regole del distanziamento fisico diventano ora per ogni cittadino una necessità urgente - spiega Monoriti - da applicare in maniera corretta per evitare di mettere a rischio la propria salute e quella degli altri. Per adottare correttamente il principio del “distanziamento fisico”, non bastano però i decreti. Occorre condurre i cittadini a motivarsi da soli. Nella Fase 2 è l'individuo a dover mettere in pratica, nel suo quotidiano, le giuste regole per riuscire a contrastare realmente, attraverso la prevenzione, il propagarsi della pandemia. Insomma, se il virus gioca con la nostra umanità dobbiamo essere abili nel cambiare gioco. “Salutiamoci bene” nasce proprio per identificare quei gesti-barriera che possano, però, funzionare anche come attivatori mentali in grado di ricordare costantemente ai cittadini di mantenere il distanziamento fisico, senza annullare le regole della socialità”.

Per spiegare in maniera semplice a tutti, anche ai più piccoli, il nucleo essenziale del progetto, il team propone di riflettere su una dotta parabola nota come “il dilemma del porcospino”, elaborata nel 1851 da Arthur Schopenhauer nel volume “Parerga e paralipomena”: “Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi dal gelo col calore reciproco. Il dolore provocato dalle spine li costrinse però ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno: di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. Finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”.

Quello che viene proposto è una nuova forma di saluto, un nuovo rito da condividere che, non potendo utilizzare il contatto fisico, si affida allo sguardo e alla gestualità. “Non è un semplice saluto, ma uno sguardo – conclude Monoriti – Nella mano ci sono i nostri nuovi occhi. Con un gesto possiamo dire: ti vedo, ti sento, ci sono. È l’avvio di una connessione interiore. Si tratta un gesto che richiede una frazione di tempo in più, tempo dedicato a riconoscere l’altro. Si colloca quindi anche nel solco di quella necessità di cambiamento, che deve partire dalle relazioni umane e non dai processi, che dovrà portare ad irrorare la società con azioni che promuovano lo spostamento (anche di poco è sempre essenziale) dalla logica dell’individualismo e del profitto a quella dall'etica del bene comune". Perché posare lo sguardo sull’altro e guardarlo negli occhi è la prima forma di riconoscimento, la prima forma di calore, la prima forma di umanità.