Referendum, approfondimento sul primo quesito (Jobs Act): ecco cosa siamo chiamati a decidere
di Matteo Cantile
L’eventuale abrogazione del decreto del 2015 riporterebbe in vigore la disciplina prevista dalla legge Fornero per i licenziamenti

L’8 e il 9 giugno si voterà per cinque quesiti referendari promossi dalla Cgil: quattro di questi sono legati al tema del lavoro. Il primo riguarda l’abrogazione del Decreto Legislativo 23/2015, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Se vincesse il Sì, verrebbero meno le regole attuali sui licenziamenti illegittimi e tornerebbe in vigore la disciplina stabilita dalla legge Fornero.
Telenord approfondirà, ogni giorno di questa settimana, i cinque quesiti in programma per fornire ai lettori uno strumento chiaro, neutrale e completo per comprendere meglio la portata e il significato di ciascuna proposta referendaria, così da potersi formare un’opinione consapevole.
Jobs Act – Il decreto oggetto del primo quesito referendario è uno dei provvedimenti attuativi della legge delega n. 183 del 2014, nota come Jobs Act, approvata sotto il governo Renzi. Con l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, il legislatore ha previsto per i nuovi assunti un sistema di indennizzo economico predeterminato in caso di licenziamento illegittimo, limitando fortemente la possibilità di reintegro nel posto di lavoro.
Contesto normativo – Il D.Lgs. 23/2015 stabilisce che il reintegro sia previsto solo in casi eccezionali, come il licenziamento discriminatorio. Nella maggior parte delle ipotesi, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere un’indennità calcolata in base all’anzianità di servizio del dipendente, da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità. Il provvedimento mirava a incentivare l’occupazione stabile e ridurre il contenzioso in materia di lavoro, ma è stato criticato per aver ridotto le tutele per i nuovi lavoratori.
Risultati del Jobs Act – Il contratto a tutele crescenti, introdotto dal decreto del 2015, mirava a incentivare l’occupazione stabile, semplificare le regole sui licenziamenti e ridurre la dualità del mercato del lavoro tra lavoratori tutelati e precari. Nei primi due anni di applicazione, anche grazie agli sgravi contributivi previsti dalla legge di Stabilità 2015, si è registrato un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato. Tuttavia, a partire dal 2017, le assunzioni stabili sono diminuite, mentre è cresciuto nuovamente il ricorso ai contratti a termine e alla somministrazione. Secondo i dati forniti da Istat, Inps e Ministero del Lavoro, gli effetti strutturali della riforma si sono rivelati limitati. Il Jobs Act non ha risolto il problema della precarietà giovanile né ha inciso in modo significativo sulla qualità complessiva dell’occupazione. La Corte Costituzionale è inoltre intervenuta più volte sul meccanismo dell’indennizzo fisso, giudicandone alcune rigidità incostituzionali, come nella sentenza n. 194 del 2018.
Legge Fornero – In caso di vittoria del Sì, non si tornerebbe all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori nella sua formulazione originaria del 1970, bensì alla versione già modificata dalla legge 92 del 2012, nota come riforma Fornero. Questa normativa aveva già ridimensionato il reintegro automatico nel posto di lavoro, limitandolo ai soli casi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto materiale contestato. Nelle altre ipotesi di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è tenuto a risarcire il dipendente con un’indennità stabilita dal giudice, che può modulare l’entità del risarcimento sulla base della gravità del caso e dell’anzianità del lavoratore. In sostanza, il Sì al referendum non ripristina le tutele integrali pre-2012, ma riporta il sistema a quello in vigore prima del Jobs Act, caratterizzato da un maggiore potere discrezionale dei giudici e da una maggiore possibilità di reintegro rispetto all’attuale normativa.
Platea interessata – La normativa sui licenziamenti illegittimi oggetto del referendum si applica solo ai lavoratori dipendenti del settore privato assunti con contratto a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti. Secondo le più recenti elaborazioni Istat e Inps, questa platea rappresenta circa il 20-25% del totale dei lavoratori dipendenti in Italia, pari a circa 3,5–4 milioni di persone su un totale di oltre 17 milioni di occupati. Restano esclusi i dipendenti di microimprese, i lavoratori pubblici (che hanno regole diverse), i lavoratori a termine, quelli in somministrazione, autonomi e collaboratori. Il quesito, quindi, riguarda una parte circoscritta ma significativa del mercato del lavoro, in particolare nei settori manifatturieri, nei servizi avanzati, nel commercio strutturato e nella logistica.
Comitato del Sì – I promotori dell’abrogazione sostengono che il contratto a tutele crescenti abbia indebolito in modo strutturale i diritti dei lavoratori, semplificando eccessivamente le procedure di licenziamento. Il ritorno alla disciplina precedente restituirebbe al giudice il potere di valutare caso per caso la gravità del licenziamento, rendendo possibile il reintegro in una più ampia gamma di situazioni.
Comitato del No – I sostenitori della normativa vigente ritengono che il Jobs Act abbia favorito le assunzioni a tempo indeterminato rendendo più prevedibile l’esito delle controversie legate ai licenziamenti. A loro avviso, l’eventuale abrogazione introdurrebbe un maggior grado di incertezza per le imprese, che potrebbero diventare più caute nell’attivare contratti stabili.
Quorum referendario – Come previsto dall’articolo 75 della Costituzione, affinché il referendum abbia effetto è necessario che si rechi alle urne almeno il 50% + 1 degli aventi diritto. Se il quorum non verrà raggiunto, anche in presenza di una maggioranza di voti favorevoli, il quesito verrà considerato nullo e la norma resterà in vigore.
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