Psicoanalisi del traumatico, il nuovo libro di Mauro Manica
di Giulia Cassini
Sogno, dissociazione e linguaggio dell'Effettività
La lingua tedesca non dispone di un termine specifico che le permetta la traduzione della parola “trauma”, ma usa la parola “Traum” per indicare il sogno. Da qui al capolavoro di Freud “L’interpretazione dei sogni” parte idealmente Mauro Manica per la realizzazione del suo ultimo libro intitolato “Psicoanalisi del traumatico“ di Alpes Italia con prefazione di Maurizio Collovà.
Gli assi portanti, cioè il trauma e il sogno, sono di particolare rilievo nei giorni dell’isolamento che accorcia quella distanza nelle categorie mentali della conoscenza in cui si è soliti incasellare il trauma come evento negativo da evitare e il sogno come il bello a cui tendere. Non è certo un libro scritto in queste ore, ma si presta a diverse letture e si dimostra di estrema attualità. Tornando al testo senza divagare, nelle parole di Mauro Manica il trauma è “Ciò che si dà come insognabile, mentre il sogno è la frontiera immunitaria che trasforma gli antigeni del traumatico”.
Le pagine sono una rex extensa dell’interiorità nell’intersecarsi dello sguardo che chi legge può rivolgere dentro di sé, ma pure nella narrazione in cui si ripercorrono passaggi fondamentali della teoria e della clinica psicoanalitica. Trauma e sogno, trauma e dissociazione, trauma e cura diventano allora i capitoli di questo saggio che dedica un Appendice al concetto ogdeniano di terzo analitico intersoggetivo. Tanti i riferimenti culturali e letterari, come quello a Giacomo Leopardi, qui vissuto quale “filosofo delle emozioni” (del resto l’Infinito è una sorta di condensato psicoanalitico) e a capolavori come “La vita è bella”, il film del 1997 diretto e interpretato da Roberto Benigni, ove Manica sottolinea come il titolo sia tratto dalla frase «La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore» del testamento di Lev Trotsky.
E’ qui che nasce uno dei grandi interrogativi, che anche l’uomo con basse inclinazioni filosofiche si pone ai tempi della pandemia: come si rende sopportabile la morte? “Ognuno di noi sa che non uscirà vivo dalla vita -scrive Manica- Winnicott diceva che ogni volta in cui iniziava un’analisi si augurava di rimanere per tutta la sua durata in salute, sveglio e vivo. E Jung aveva sostenuto che, pur essendo consapevole di dover morire e dunque non negando la realtà della morte, continuava a vivere considerandosi eterno. Allora, nasciamo per vivere? O nasciamo per morire?”
C’è una sorta di barometro che indica come affrontiamo le situazioni estreme. “Io stesso sono cambiato – aggiunge Manica – ad esempio all’inizio mi sembrava che Benigni negasse la realtà. Dopo tante esperienze con i pazienti ho capito che quello è l’unico modo per sopravvivere a una realtà traumatica. Ecco perché nel film Benigni la trasforma in una favola, in un sogno”. In ultimo una digressione sull’attualità: “In alcuni servizi di diagnosi e cura stanno ricominciando le contenzioni dei pazienti che non mettono le mascherine, che fumano e così via. Non è accettabile. Certo, bisogna far rispettare le regole, ma vanno trasmesse con la gentilezza -non intesa nel senso più comune o se vogliamo banalmente- ma nell’accezione ben veicolata dalle scritture ebraiche “Ricorda che sei stato straniero nel paese d'Egitto”, per rendere l’idea. La pubblicazione stessa in definitiva è un modo di mettersi in gioco dialetticamente.
“Dobbiamo gratitudine anche ai nostri pazienti -aggiunge Manica- e si deve allo stesso tempo tenere in conto che tutti siamo dotati di un istinto terapeutico. Noi ci prendiamo cura dei pazienti e viceversa. Del resto la sofferenza psicopatologica più grave è solitamente dovuta all’inibizione di questo aspetto terapeutico nel bambino come in età adulta”.
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