La guerra (assurda) sui confini delle regioni
di Paolo Lingua
La Storia conferma senza ombra di dubbio che l’Unità d’Italia si è fatta mettendo faticosamente insieme un bel po’ di “staterelli”, grazie alle conquiste di Cavour e di Garibaldi, ma oggi, Costituzione alla mano, dobbiamo essere consapevoli che le nostre regioni sono delle realtà decentrate amministrative e non degli Stati autonomi e che i loro presidenti, al di là degli abusi linguistici correnti, non sono “governatori” plenipotenziari. Va quindi premesso che il problema degli spostamenti dei cittadini in questo complicato e pericoloso contesto del coronavirus va rimesso allo Stato che deciderà non in base di abuso di diritti o di autorità di polizia ma solo per questioni di pericolo sanitario e, quindi, in nome dell’interesse pubblico e dell’integrità dei cittadini stessi. Le polemiche in corso tra le regioni e lo Stato assumono quindi i connotati dell’assurdo perché si oscilla dalla chiusura “militare” delle frontiere a chi viene dalle regioni più colpite dal virus alla “caccia” ai potenziali fruitori dell’offerta turistica messa in ginocchio: “venite, venite”, un po’ come conclama il presidente della Liguria Giovanni Toti, alla caccia di voti e di consensi alla vigilia dell’appuntamento elettorale.
Le polemiche e i contrasti sono nati pochi giorni fa quando i presidenti della Sicilia e della Sardegna hanno annunciato che per venire in vacanza nelle loro terre i residenti di altre regioni italiane (con particolare riferimento alla Lombardia e al Piemonte) dovranno portare certificazioni sanitarie che li dichiarino non affetti dal virus. Invece, come s’è già accennato, dalla Liguiria e da altre regioni si è addirittura lanciato una sorta di invito a venire a passare le vacanze in Liguria. Inutile sottolineare che i lombardi, i piemontesi, gli emiliani in particolare sono considerato clienti graditi ed economicamente disponibili. Nel secondo caso i presidente delle regioni hanno sorvolato sui rischi infettivi (anche se si tratta delle regioni più colpite e tutt’ora le più alte per infettività e mortalità) pur di riempire alberghi e spiagge,
Tra l’altro, con la quasi certezza (confermata da continue disdette, come confermano gli albergatori) dell’assenza di turisti stranieri, in particolare tedeschi e dell’Europa del Nord, la stagione turistica si annuncia pesante e di fatto in passivo, con forti rischi di chiusure e di perdite di posti di lavoro. In questo contesto di spiega la caccia agli italiani più disponibili economicamente nella speranza d’un parziale recupero.
Però a questo punto la palla passa al governo che ha già fatto sapere che non è possibile discriminare sui cittadini muniti o meno d’un “passaporto sanitario” e che il “no” della Sardegna e della Sicilia è sostanzialmente illegittimo e non può essere attuato. Però il governo dovrà decidere, anche sulla base dei dati sulle infezioni, sulle guarigioni e su decessi, tutt’al più entro sabato, come agire e cosa decidere sugli spostamenti in assoluto dei cittadini. In teoria dovrebbe essere possibile muoversi a partire dal 3 giugno, ma potrebbero esserci dei ripensamenti e dei prolungamenti di blocco di trasferimento da una regione all’altra, ma dovrà essere varata una normativa che non leda diritti insopprimibili e al tempo stesso tenga conto dei rischi che in parte sino a oggi sono stati contenuti. Nel frattempo, data delle elezioni regionali e amministrative da decidere tra mille contrasti, occorrerà assumere una posizione ponderata, superando il bisticcio un po’ fuori delle righe delle regioni italiane.
Alle spalle di tutto, come è fin troppo ovvio comprendere, c’ la pesante crisi del turismo. In Italia da sempre la stagione estiva è una ricchezza, un investimento continuo, un flusso imponente di denaro, con alti livelli occupazionali. L’Italia offre, il mare, la montagna l’arte e la cultura. Un prodotto di eccellenza frutto di una ricchezza naturale insuperabile e intrecciata, con un moltiplicarsi delle occasioni e del business. Ma il coronavirus ha inferto a una settore complesso e interconnesso una ferita irrimediabile, quantomeno per il 2020. Gli osservatori economici hanno già valutato che non basteranno le cosiddette “seconde case” a coprire i vuoti e i conti in rosso. La mancanza di turismo straniero sarà un cappio al collo. In particolare ne soffriranno le spiagge della Romagna o delle isole del Mezzogiorno, amate dagli Europei del Nord. La Liguria pagherà un altissimo prezzo, ma conta di smorzare i danni con lombardi e piemontesi e un po’ di presenze di turisti locali, bloccati a loro volta nel sogno di vacanze in località esotiche. Questo spiega il fin troppo ostentato entusiasmo di Toti nel farla finita con le chiusure e conferma l’annuncio di pochi giorni fa da parte del segretario generale della Regione Pietro Paolo Giampellegrini, commissario al turismo, di puntare su una campagna promozionale di reclutamento rivolta quasi esclusivamente alle regioni confinanti con la Liguria, compresa la Provenza francese. Sarà un successo? Sarà un flop? Funzioneranno ristoranti e stabilimenti balneari con i severi distanziamenti? Ma poi le regole del rigore saranno rispettate man mano che la stagione delle vacanze proseguirà e , bene o male, raggiungerà il suo acme? E come andranno le attività collaterali e complementari al turismo come il commercio, la moda, la gastronomia, i locali di divertimento (che non si sa ancora se potranno aprire)? Così come sono assurde le “frontiere” sbarrate, occorre essere attenti all’ottimismo facilone. Ci vorrebbe più realismo e più consapevolezza, che purtroppo mancano, a tutti i livelli. Ma adesso la decisione è sulla scrivania di Conte e dei suoi ministri. Non possono permettersi di sbagliare.
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