Io (oggi) sto con Roberto Mancini: ecco perché
di Maurizio Michieli
Ha dato più lui alla Nazionale italiana di quanto la Nazionale abbia dato a lui
"Traditore", "Opportunista", "Interessato soltanto ai soldi". In queste ore, successive all'addio di Roberto Mancini alla guida della Nazionale, se ne stanno leggendo e sentendo di tutti i colori sul suo conto. C'è persino chi, a distanza di oltre 20 anni, riesuma il fatto che non possedesse il patentino di allenatore alla Fiorentina.
E poi "fortunato", "sopravvalutato", "peggio di Ventura". Insomma, chi più ne ha più ne metta. Nel tipico sport italiano di essere forti non quando l'avversario lo è altrettanto o di più, bensì nel momento in cui viene a trovarsi in una situazione di comoda esposizione e vulnerabilità mediatica. Insomma, si fa presto a scaricare qualcuno che non pesa più o ha smesso di pesare. Specie su di noi e sui vantaggi che un legame amicale può garantire.
Mi permetto di scrivere queste cose perché, non certo eroicamente ma solo nel rispetto della mia coscienza, criticai aspramente il Mancio quando, a mio parere, era il caso di farlo. Ovvero, quando lasciò la Sampdoria in braghe di tela "sfruttando" una clausola verbale promessagli dall'ormai defunto Paolo Mantovani e rispettata dal figlio Enrico. Era il 1997. Una scelta che contribuì a dividere la tifoseria, che rimase spaccata per molti anni, a depotenziare la gestione dei figli dell'immenso Paolo al punto che Veron e Seedorf non bastavano più a soddisfare gli appetiti dei sampdoriani. Semplicemente perché si era tornati sulla terra, la Sampdoria aveva smesso di vincere, il calcio era cambiato ed Enrico (con lui Francesca, Ludovica e il compianto Filippo) non era Paolo, soprattutto non ne possedeva le disponibilità economiche, dallo stesso grande presidente peraltro già ridimensionate con la cessione di Vialli alla Juventus.
Mancini, sia chiaro, soddisfò legittimamente i suoi appetiti di vincente andando alla Lazio (dopo avere fatto fuoco e fiamme per approdare all'Inter) ma da lì in poi la storia della Sampdoria prese inesorabilmente una piega complicata, in un clima di grande esasperazione e tensione. Immaginavo per lui e per la Samp una storia alla Maldini con il Milan o alla Totti con la Roma e quella disillusione repentina determinò la mia presa di posizione avversa.
Intuisco già l'obiezione: oggi Mancini sta facendo la stessa cosa con la Nazionale. Ma non è così. Roberto Mancini ha preso la Nazionale dalle macerie di una mancata qualificazione ai Mondiali e l'ha condotta alla vittoria dell'Europeo. Fallendo a sua volta la qualificazione a Qatar 2022 ma al termine di una partita con la Macedonia del Nord che, rigiocata venti volte, avrebbe un risultato diverso. Non è colpa di Mancini se gli azzurri si sono divorati otto gol, compreso uno su rigore. Compito di un selezionatore è individuare i calciatori, plasmare un gruppo, dare un'identità alla squadra e farla giocare creando occasioni da rete: tocca ad altri spingere il pallone in porta. Nel suo lavoro di ct il Mancio è stato un fuoriclasse mentre non altrettanto si può sostenere dei pur meravigliosi giocatori da lui traghettati sul gradino più alto del podio. Quanti di loro sono autentici campioni?
Il successo agli Europei ha "drogato" il nostro calcio esattamente come lo fece l'Italia di Lippi nel 2006. I due trionfi hanno rappresentato la foglia di fico sotto cui nascondere le magagne di un sistema poggiato su fondamenta fragilissime, come dimostra la gestione della sezione femminile. Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ne ha bollato il recente insuccesso al Mondiale come originato da una "mancanza di coccole" verso le nostre atlete. Dichiarazione che (giustamente) ha fatto sobbalzare dal divano Ludovica Mantovani, "silurata" dalla presidenza della Figc femminile mentre la stava traghettando in maniera decisiva verso il professionismo. Un obiettivo in cui si crede, oppure no. Basta dirlo.
Ecco, io penso che Mancini abbia fatto di più per l'Italia calcistica di quanto l'Italia, intesa come Nazionale, abbia fatto per lui. Non so, non posso sapere se abbia compiuto la scelta di mollare tutto a Ferragosto per dissapori sullo staff (indiscrezione rilanciata dagli ambienti azzurri), perché "non ha superato il trauma della morte di Vialli" (lo ha detto sua mamma Marianna) o semplicemente perché andrà in Arabia a prendere 40 milioni all'anno di stipendio per tre anni, sistemando con 120 milioni diverse generazioni future della sua famiglia. Di certo non è stato il massimo dell'eleganza e dello stile che lo hanno da sempre accompagnato, ma proprio per questo mi viene anche qualche dubbio sulle reali motivazioni del gesto.
E so che vederlo linciato, mediaticamente e sui social, così barbaramente dopo averci regalato una delle gioie più grandi della storia calcistica di questo Paese mi fa male al cuore. E lo scrive uno a cui lui, il Mancio, per quasi 15 anni ha tolto il saluto a causa della presa di posizione pro famiglia Mantovani (o, meglio, pro Sampdoria) e all'apparenza contro di lui.
Un "cinque" scambiato in sala stampa dopo Italia-Ucraina al "Ferraris" nel 2018 pose fine a quel periodo di "belligeranza", forse anche perché Roberto nel frattempo aveva letto il mio libro, in parte dedicato a quella vicenda e questo lo aveva "aiutato" a calarsi meglio nella realtà di quel tortuoso periodo. Ma tutto ciò nulla c'entra con la mia personale posizione di oggi, che ho cercato di argomentare: Io sto con Mancini e basta. Perché se tutto quello che si dice e si scrive contro di lui in queste ore è davvero ciò che gli autori pensano allora significa che non abbiamo vissuto una favola sportiva ma un inganno retrodatabile.
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