I misteri (italiani) del Recovery Fund
di Paolo Lingua
Non è del tutto chiara, per non dire confusa e contraddittoria, la vicenda del Recovery Fund. Quando era stato approvato il progetto, s’era diffusa in tutta Europa una ondata di ottimismo: si superava una politica di arcigno rigorismo di bilanci, con il sostegno storico dei famosi “stati frugali”, puntando alla ripresa economica nella prospettiva d’un calo della pandemia.
L’Italia sembrava in particolare euforia. Purtroppo, nel volgere di qualche mese, i progetti relativi al Recovery si sono sfilacciati (non solo in Italia). In un primo momento si è capito che i finanziamenti (in parte prestiti restituibili a rate; in parte a fondo perduto) non sarebbero arrivati subito. S’era capito in un secondo tempo che ogni stato avrebbe dovuto mettere a punto un programma preciso e articolato che sarebbe poi stato esaminato e approvato dai vertici europei. Poi, poco più d’un mese fa, sono emersi stati sovranisti – Ungheria, Polonia, Slovenia – che hanno mosso obiezioni e messo una sorta se non il veto quantomeno di un blocco alla pratica. Ora si aspetta un nuovo vertice prima di Natale per cercare di superare opposizioni o obiezione. Ma anche se tutto andrà bene e se si troverà un compromesso, i fondi del Recovery non arriveranno prima della primavera. I tempi a quel che pare – ma era prevedibile – si allungano. E per un paese come l’Italia che rischia di pagare uno dei prezzi più alti per la crisi e che, ogni giorni che passa, denuncia nuovi settori di calo produttivo, commerciale e di declino anche delle eccellenze, come la moda e l’alimentazione, la situazione si fa preoccupante.
Ma il quadro generale appare, proprio per il nostro Paese, ancora più complesso. Sino a questo momento, al di là di enunciazioni generali, non è stato messo a punto, con prospettive concrete, un piano, sia pure di massima, che indicasse i punti strategici qualificanti per la ripresa economica. Si è accennato alla “green economy”, all’andare avanti sulle tecnologie avanzate e sulla economia digitale: Principi generali indiscutibili e collegati alò progresso in corso in tutto il mondo. Ma si sperava in affermazioni “forti” su investimenti riguardanti la ripresa produttiva, il rilancio dei trasporti e delle comunicazioni, vale a dire un impegno per incrementare la ricrescita generale, la ricchezza collettiva e l’occupazione. Più che nel settore industriale tradizionale, ogni giorno che passa si segnalano incrementi di perdita di posti lavoro. E in particolare nei settori più fragili: quelli connessi al turismo in crisi e al commercio e all’artigianato minori. Si tratta ormai di decine e decine di migliaia di posti di lavoro, anche poco coperti sul piano sociale e assistenziale. Ma sono realtà occupazionali che potranno ricrescere solo se ci sarà una reale ripresa che faccia lievitare il benessere.
Anche per quel che riguarda la Liguria, che potrebbe essere alla vigilia (in caso di ripresa) d’una profonda trasformazione in molti settori, non mancano elementi di dubbio. Se la digitalizzazione del porto di Genova è una scelte certamente positiva perché avrà ricadute sull’efficienza produttiva e funzionale, molti aspetti sono ancora poco chiari. Ci sono rischi (e sono emersi anche in altre regioni) che si cerchi di impiegare il, Recovery per coprire spese ordinarie e di manutenzione. Un obiettivo “comodo” ma non strategico sul quale punterà certamente il Sud, ma che potrebbe fare capolino anche a casa nostra. Bisogna evitare di rivolgere finanziamenti a opere già coperte da bilanci del passato. Occorre puntare sulle grandi opere anche per ottenere il “via libera” dall’Europa. I finanziamenti del Recovery possono dare impegno per almeno dieci anni se le scelte saranno azzeccate. Ma occorre maggiore spregiudicatezza (senza pregiudizi) e non impuntarsi a testa bassa come il M5s contro il Mes. E anche questo è un bel pasticcio finora inestricabile per il nostro fragile governo.
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