Crollo del Ponte Morandi: un dolore che non si rimargina
di Paolo Lingua
A volersi soffermare intorno a una riflessione profonda, si finisce amaramente per ammettere che il crollo del Ponte Morandi (oggi, per fortuna, San Giorgio) è stato una delle vicende più assurde non solo degli ultimi tempi, ma anche d’un più lontano passato. L’Italia ha conosciuto infiniti drammi naturali: eruzioni di vulcani, terremoti, sconvolgimenti meteorologici, esondazioni. Ma, sempre per andare in fondo alla realtà, si è trattato quasi sempre di eventi provocati da quelle che, banalmente, chiamiamo “cause naturali”. Certo, ci sono essere, a complemento, errori umani, superficialità di previsioni, indolenze nelle manutenzioni. Ma quasi sempre è stata la natura a imporsi di forza. Invece il crollo del ponte sul Polcevera che unisce una rete autostradale è davvero una ferita etica e le 43 vittime sono un sacrificio che non ha giustificazione.
La giustizia degli uomini ha cominciato a fare il suo corso all’indomani della tragedia: un corso che durerà molti anni, purtroppo, per la complessità delle indagini e del confronto delle perizie tecniche oltre che della intricata ricostruzione delle responsabilità umane (dolo, omissioni, errori di valutazione, e così via). Ma, comunque si concluda l’azione della giustizia, sarà difficile pervenire a una verità assoluta a una radiografia senza ombre delle responsabilità. E questa valutazione non è frutto della diffidenza nei confronti della giustizia degli uomini perché, senza voler sembrare apodittici, il crollo del Ponte Morandi è un errore di sapore storico: è frutto d’una cultura sbagliata dell’impresa privata e del servizio pubblico.
Il dramma è la conseguenza d’una epocale visione superficiale della realtà e della tecnologia. In questa chiave resterà irremovibile dalla memoria collettiva il crollo del Ponte Morandi. Dopo la scontata celebrazione della rapida ricostruzione del ponte, con le massime autorità dello Stato e degli enti locali oltre che dei rappresentanti delle imprese costruttrici – una festa contenuta nella forma ma positiva e proiettata al futuro - è giusta e doverosa la manifestazione di domani che prevede la messa dell’arcivescovo Marco Tasca a San Bartolomeo della Certosa, l’inaugurazione della Radura della Memoria, la targa con i nomi delle vittime e le fiaccolate nella prima parte della notte che s’intrecceranno tra Sampierdarena, Certosa e Cornigliano.
Un anniversario da incidere nei ricordi, un ricordo focalizzato sul ricordo delle vittime, una celebrazione laica e vivile e al tempo stesso religiosa con presenze cristiane e musulmane, le fedi delle vittime di due anni fa. Assume una suggestione tutta speciale la Radura della Memoria, con tanti alberi quante solo le vittime e ogni pianta differente. Un bosco verde, quindi piacevole allo sguardo, una piccola foresta urbana per non dimenticare. E, al tempo stesso, al di là del simbolo che non deve essere fine a se stesso, rigido come una monumento, la Radura sarà un’ isola naturale in funzione d’una zona della città che è sempre stata dominata dalla pietra e dal cemento. Sarà quindi un giardino, un punto di riferimento della popolazione - in particolare per gli anziani e per i bambini – che eserciteranno sempre il ricordo, ma con il sorriso e con un senso di speranza, un sentimento, forse l’unico, che se non cancella il dolore ne attenua la tristezza. Così domani, una città che per il dramma del coronavirus non si è svuotata come sempre a Ferragosto, renderà l’omaggio ai morti innocenti dello schianto d’una struttura che non sarebbe mai dovuta crollare. Genova si inchina e non dimentica.
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