Coronavirus, a Genova regnano il silenzio e una rassegnata pazienza

di Paolo Lingua

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Coronavirus, a Genova regnano il silenzio e una rassegnata pazienza

Genova da oggi è la città del silenzio. Strade deserte, negozi chiusi, bar e ristoranti a luci spente. Nella giornata, solo nelle ore centrali, code a maglie larghe di cittadini in attesa di entrare nei supermercati con commesse pazienti che distribuiscono i numeri e poi fanno l’appello, man mano che gli acquirenti escano con la loro spesa. Meno folta la coda nei negozi di alimentari (panettieri, rosticcerie, salumerie, macellai ecc.), farmacie e tabaccherie. La gente cammina a testa bassa, non sorride, aspetta con pazienza. Sono comparse, anche se limitate nel numero, le prime mascherine. Sono soprattutto le donne a indossarle.

La sensazione diffusa è quella di una rassegnata pazienza. Se si devono cambiare le abitudini consolidate e inveterate, tanto vale farlo subito e adeguarsi. La cronaca ci parla solo di qualche ragazzata, subito bloccata dalle forze dell’ordine disseminate alle stazioni ferroviarie e alle principali fermate dei bus. Ma non ci sono note di cronaca vivaci o di scontri, anche solo verbali. Genova è avvolta da una rassegnazione razionale, se si volesse inventare una definizione adeguata allo stato d’animo diffuso. Anche perché la normativa imposta dal Governo, con le ultime regole decise ieri sera ha disegnato un Paese dove non ci sono vie di fuga o alternative per dribblare i divieti. Anche tutte le attività associative private sono chiuse e blindate. Non c’è più vita sociale se non all’interno delle proprie case. Non resta quindi che adeguarsi, convincendosi che questa strategia è l’unica di bloccare l’infezione e rallentarla sino a farla quasi dissolvere.

“Tertium non datur” a voler evocare i nostri padri latini. Solo stringendo i denti, adeguandosi con animo calmo e sereno, pagando tutti i prezzi che ci sono da pagare avremo ragione di questa “pandemia”. Eppure, se ci ripensiamo, solo in questo secolo abbiamo sofferto, assai più tragicamente per la cosiddetta “spagnola”. Ci hanno inseguendo, incombendo, ancora la tubercolosi e la malaria (chi non ricorda la tragica morta di Fausto Coppi?). E poi la influenza “asiatica” e altre infezioni. Però nessuna forse ci ha coinvolto come un fenomeno di massa, anche se , a ripensarci, erano morbi assai più assassini e più pericolosi. Ma, per questa vicenda, hanno giocato due fattori. Il primo è stato il contagio insidioso e misterioso, senza la possibilità di aggrapparci, in una società dove la scienza e la ricerca sembrano farla sempre da padrone, a una sicurezza sociale e antropologica. Il secondo è stato l’incredulità d’una diffusione e d’un contagio allargato a macchia d’olio senza la possibilità di un freno. In un certo senso ci credevamo, in particolare nelle società occidentali, le più avanzate come civiltà e livello di vita, invincibili e impenetrabili, corazzati e inaffondabili. Invece è emersa tutta la nostra fragilità. Abbiamo scoperto di essere, in certi casi, senza difese.

E di colpo ci siamo ritrovati rifugiati in casa, privati di ogni nostra evasione, da quelle popolari a quelle di élite. Prigionieri di noi stessi e costretti a ripensare, a ragionare, a fare collegamenti con un passato che avevamo (e credevamo, illusi) sepolto. Ci auguriamo che questo stato di cose abbia una conclusio0ne positiva e non troppo lontana. Molti torneranno a una visione spensierata della vita, ma in tanti di noi – ed è giusto che sia così – resterà un marchio, il segno di un brutto ricordo, ma pur sempre qualcosa che ci ha fatto crescere e magari diventare più saggi. Questi sono i pensieri che debbono accompagnarci nei percorsi frettolosi di questi giorni nella città del silenzio.