Chiavari, morte Feltrinelli, 51 anni dopo la rivelazione di un anziano ingegnere: "Fui io a dare l'esplosivo all'editore"

di Stefano Rissetto

7 min, 29 sec

Un 85enne esce dall'anonimato e chiarisce definitivamente al "Corriere della Sera" il caso dell'esplosione su un traliccio di Segrate costata la vita all'editore rivoluzionario

Chiavari, morte Feltrinelli, 51 anni dopo la rivelazione di un anziano ingegnere: "Fui io a dare l'esplosivo all'editore"

"Quando sui giornali uscì la notizia con la sua foto lo riconobbi e mi sentii in colpa; non tanto per avergli dato la dinamite, ma perché se fossi stato lì, come mi aveva chiesto in altre occasioni, non sarebbe morto". Oltre 51 anni dopo quel 14 marzo 1972, Vittorio Battistoni (in basso a destra, foto per gentile concessione del Corriere della Sera), un 85enne ingegnere in pensione di Chiavari, rivela la verità sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli (in alto a destra). L'editore, erede di una ricchezza immensa costruita sul commercio di legname e avvicinatosi agli extraparlamentari di sinistra milanesi, saltò in aria su un traliccio Enel di Segrate. Si era nel pieno della sequenza oscura partita dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, proseguita tre giorni dopo con quella che il futuro Premio Nobel Dario Fo avrebbe definito "morte accidentale di un anarchico", ovvero la mai fino in fondo chiarita morte di Giuseppe Pinelli; culminata nell'omicidio di Luigi Calabresi il 17 maggio dello stesso anno per cui molti anni dopo sarebbero stati condannati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi.

In questo contesto, la morte di Feltrinelli venne interpretata da molti osservatori come l'eliminazione decisa in alto (governo, servizi, CIA) di un personaggio scomodo, ricchissimo eppure attivista in quella zona contigua al partito armato. Ora esce allo scoperto, intervistato da Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera", il chiavarese Battistoni, che rivela di aver consegnato personalmente l'esplosivo a Feltrinelli poche ore prima della deflagrazione.

Battistoni, ingegnere meccanico, iscritto in gioventù al PCI ma con tendenze anarchiche che lo portarono, dopo il 1969, ad avvicinarsi ai "Gruppi di azione partigiana" fondati dall’editore milanese e alle prime Brigate rosse, in cui però non avrebbe mai militato.

Con i Gap, invece, secondo la versione resa al quotidiano di via Solferino, ci fu una collaborazione di un paio d’anni, nei quali Battistoni fu anche l’autista personale di Feltrinelli, accompagnandolo negli spostamenti segreti in Italia e all’estero, mentre tentava di organizzare l’offensiva rivoluzionaria della quale è rimasto vittima. La testimonianza di Battistoni, emersa a mezzo secolo dai fatti, è il nocciolo di Gappisti (DeriveApprodi), il libro dello storico Davide Serafino che ricostruisce la storia della rete costruita da Feltrinelli, in tempi in cui nell'estrema sinista nascevano altre bande armate, dal gruppo genovese XXII Ottobre alle stesse Br.

"Ho conosciuto Feltrinelli a casa dell’avvocato Lazagna — racconta al Corriere l'ingegnere — poco tempo dopo la strage di piazza Fontana. Feltrinelli era convinto che avrebbero tentato di tirarlo dentro la storia delle bombe neofasciste attribuite agli anarchici, così come dei progetti di colpo di Stato che erano ben visibili dietro quegli attentati; non era l’unico a parlarne, in quel periodo, ma il solo intenzionato a fare qualcosa di concreto per evitarlo. Per questo accettai di aiutarlo. Tramite Lazagna mi fece avere i soldi per comprare una Fiat 850 celeste con la quale l’ho portato tante volte a Roma, Firenze, Bologna, Milano, ma anche all’estero, in Austria e Germania. Lui per un certo periodo spariva, poi tramite intermediari mi fissava un appuntamento e io mi facevo trovare lì. In macchina, più che parlare, leggeva e scriveva. Arrivato a destinazione incontrava persone, ma io non assistevo ai suoi colloqui, né chiedevo chi avesse visto e che cosa si fossero detti. Qualche volta ho avuto l’impressione che avesse consegnato dei soldi, ma non facevo domande".

"Feltrinelli non era certo un esaltato, né le sue analisi sbagliate. Io ero affascinato dalla sua personalità, dai racconti sull’infanzia vissuta in un una sorta di mondo dorato durante il fascismo e la guerra, dalla volontà di riscatto di cui si fece carico quando un contadino che lavorava nella tenuta di famiglia in Toscana gli aprì gli occhi parlandogli di giustizia e di socialismo. Voleva restituire almeno in parte - ricorda Battistoni - ciò che aveva avuto. Dopodiché penso pure che guidare una rivoluzione non fosse un compito adeguato a lui; con i soldi e le disponibilità che aveva, avrebbe potuto finanziare e agevolare tanti progetti, fornendo un contributo alla causa più che pretendere di diventarne la guida".

Le prime azioni a cui Battistoni partecipò, ricorda al Corriere, furono i comunicati di «Radio Gap», diffusi via etere sovrapponendosi alle trasmissioni radio e tv. Nell’aprile 1970, grazie a una ricetrasmittente e a un alimentatore forniti dall’anarchico tedesco Wolfgang Mayer e collocati su un’auto presa a nolo, in alcuni quartieri di Genova la voce di Feltrinelli registrata con un mangiacassette interruppe un programma televisivo condotto da Tito Stagno, invitando i cittadini a una mobilitazione antifascista. Alla guida dell’auto c’era proprio Battistoni: "Su un piccolo raggio d’azione riuscivamo a trasmettere con una potenza superiore a quella dei segnali Rai, e così potevamo intrometterci. Purtroppo quella prima audiocassetta con la voce di Feltrinelli non l’ho conservata, ma ne ho altre quattro registrate da compagni diversi".

Dopo i proclami via radio, all'interno della formazione rivoluzionaria si decise di passare ai fatti e Battistoni si offrì di procurare l'esplosivo: "Dalle parti di casa mia stavano costruendo una strada utilizzando la dinamite per tagliare la roccia; per due o tre giorni mi appostai sulla montagna, e col binocolo verificai che di notte nel deposito dove tenevano i candelotti non rimaneva nessuno di guardia. Andammo in quattro o cinque, aprii la porta con un piede di porco e prendemmo due quintali di esplosivo già stipato nelle scatole. Ce lo siamo divisi io e Lazagna; io una buona metà la diedi al tedesco, il resto lo conservai in cantina".

A marzo del 1972, quando Feltrinelli decise di far saltare un traliccio alle porte di Milano per oscurare la città, come risposta a una manifestazione della "maggioranza silenziosa", ecco che quella dinamite si dimostrò utile. "Dopo — ricorda Battistoni — capii che voleva un’azione eclatante per proporsi con più forza ad altri gruppi coi quali era in contatto, come le Br o Potere operaio. Una volta a Voghera parlammo di aspetti tecnici, io da appassionato di orologi gli proposi di usarne uno da polso per costruire un timer, e a Feltrinelli l’idea piacque molto. Poi il 14 marzo 1972 mi diede appuntamento alla stazione di Lambrate, dove io arrivai con venti chili di esplosivo chiusi in una valigia. Mi aspettava con un furgoncino e insieme siamo andati a Segrate per un sopralluogo, è sceso per guardare il traliccio e dopo un po’ siamo ripartiti. Mi ha lasciato a una stazione della metro perché aveva fretta: “Oggi ho i minuti contati”, diceva. Io gli avevo spiegato come confezionare il timer, con tanto di disegno, pur sapendo che era meglio una sveglia o qualunque altro meccanismo; usare l’orologio da polso facendo un buco da un millimetro sul vetro senza toccare il quadrante era inutilmente rischioso".

Secondo Battistoni, la fretta e l’inesperienza furono fatali a Feltrinelli che, tornato in serata a Segrate con altri complici, saltò in aria: "Su “l’Unità” c’era la notizia della morte di un dinamitardo accanto a un traliccio, mentre sul “Corriere della Sera” era uscita anche la fotografia, e lo riconobbi immediatamente. Io non ero con lui perché contrario a quel tipo di azioni, ero più favorevole a iniziative come il sequestro-lampo di un dirigente della Sit Siemens compiuto dalle Br un mese prima, ma vedendo com’era andata piansi per il rammarico. Se avessero seguito le mie istruzioni, tutto avrebbe funzionato; se avessi realizzato io il timer, non avrebbe provocato l’innesco prima dell’ora fissata; se fossi stato lì sarei salito io sul traliccio e nessuno si sarebbe fatto male".

Battistoni non andò al funerale ("troppi fotografi, come alle manifestazioni") e il rimorso di aver contribuito, sia pure inconsapevolmente, alla morte dell’editore non l’ha abbandonato. Non lo cercarono mai né inquirenti né investigatori, solo due militanti dell’estrema sinistra incaricati di una sorta di "inchiesta interna" sulla fine del compagno miliardario: "Ho riferito tutto, spiegando che non c’erano complotti o misteri dietro quell’incidente, solo un po’ d’imprudenza e di imperizia".

Cinquantuno anni dopo, il "caso Feltrinelli" è così definitivamente chiuso e inscritto nella storia dei Gap, da cui adesso emerge la figura di Battistoni per rendere testimonianza di quei fatti. Il saggio di Davide Serafino "Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli" (DeriveApprodi, pp. 288, euro 20), in libreria da oggi, ricostruisce quella vicenda. "Un fenomeno minore ma significativo nel contesto della lotta armata in Italia - dice Serafino - che ha fatto da apripista a scelte future di altri, ed è utile conoscere al di là della figura del suo fondatore".

 

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