Te Deum, il discorso di fine anno del cardinale Angelo Bagnasco

di Redazione

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L'arcivescovo metropolita di Genova ha parlato ai fedeli dalla Chiesa del Gesù

Te Deum, il discorso di fine anno del cardinale Angelo Bagnasco

Cari Fratelli e Sorelle,

Saluto e ringrazio i Padri Gesuiti per la cordiale accoglienza per il Te Deum di fine anno. Rendere grazie a Dio significa riconoscere i doni ricevuti, il bene che abbiamo avuto la grazia di compiere, i bisogni per i quali invochiamo il suo aiuto. Nello stesso tempo, chiediamo perdono per il male compiuto e il bene omesso. Davanti alla porta severa del tempo, vogliamo fare nuovi propositi, guardare avanti con fiducia, perché il Signore è fedele alla nostra umanità e alla nostra vita. Il Te Deum è tutto questo e lo preghiamo insieme, come credenti, come persone di buona volontà che amano la verità e il bene.

La Chiesa di Genova

La Chiesa di Genova continua il suo cammino nella storia con umiltà e tenacia, consapevole della missione che Gesù ha affidato alla Chiesa e che Il Concilio Vaticano II chiama “Salus Animarum”, salvezza delle anime. Ciò indica il bene pieno di ogni persona, l’eternità. L’uomo moderno è assillato da molti problemi e responsabilità degne di attenzione e impegno, ma intuisce che il problema più grande si riassume in una domanda: “Che sarà di me? Della mia esistenza, dei miei sacrifici, dei miei cari?”  La vita eterna è l’interrogativo di fondo che – spesso senza ammetterlo neppure a noi stessi – è sempre desto nella coscienza. Sì, l’uomo contemporaneo si occupa di giustizia e di pace, di uguaglianza e di diritti, di ricerca e di tecno scienze, di conquiste sempre più avanzate nel cosmo grande o piccolo, ed è giusto, ma, al fondo, resta questo interrogativo che riguarda lui in prima persona, la sua radicale singolarità: che sarà di me? 
 
La Chiesa, con le sue Parrocchie e le diverse comunità cristiane, è vicina a tutti, si fa compagna di strada come Gesù sulla via di Emmaus: si affianca, ascolta, chiede, dice una parola che non è sua ma di Cristo, celebra i sacramenti della salvezza. In sostanza, offre Dio a un mondo spaesato che spesso cerca di mascherare la tristezza in modo rumoroso. Il Vangelo parla di un mondo invisibile: invisibile ma non fantasioso, altro ma non lontano, abitato ma non da divinità da propiziarsi con paura. Un mondo che non si vede con gli occhi del corpo, ma che è più reale di ogni realtà misurabile. È un mondo futuro, ma che è già tra noi, che riguarda il presente; un mondo abitato da Dio, dalla Madonna, dai Santi e dagli Angeli, dalle anime beate dei nostri cari. E’ un mondo che non conosciamo con i sensi, ma che circonda e fa vivere il nostro mondo. Gesù ci ricorda che il fine della vita terrena è oltre la vita, nell’eternità, e l’eterno è immanente alla vita stessa: è questo il principio della gioia evangelica. Oh, se guardassimo di più il cielo, come potremmo vedere meglio la terra, abbracciarla e servirla! Come potremmo salire sui tetti e annunciare, solerti e lieti, il messaggio che da duemila anni sale dalle profondità dei secoli, e corre per ogni dove come luce e speranza! La grande debolezza dell’Occidente sta nel fatto che ha perso Gesù Cristo, la fede cioè nella vita eterna, nella realtà di Dio Salvatore dell’uomo, nella risurrezione della carne alla fine del mondo. Tutto è percepito come talmente immediato e veloce, da consumarsi subito, da diventare banale: ma la vita non è mai banale perché è dono di Dio ed è chiamata alla vita eterna. La modernità sembra aver perso l’orizzonte grande, e così tutto è troppo poco per il cuore umano che è abitato da una impenitente nostalgia d’Infinito.  Ma perché – ci chiediamo - il mondo visibile sembra a disagio, quasi insofferente davanti alla predicazione dell’Invisibile? Se non crede nel mondo invisibile di Dio, perché sembra sentirsi a disagio, quasi insofferente? Forse perché sfugge al suo controllo, e soprattutto intuisce che le cose invisibili generano libertà, creano uomini liberi in grado di valutare le cose terrene, liberi e in grado di pesarle nel loro vero valore. Meglio – sembra che si pensi – una Comunità cristiana che opera, piuttosto che una comunità che predica: quella è utile socialmente, questa disturba e viene accusata di dividere. La parola di Gesù si indirizza alle coscienze con la verità non con l’opinione o, peggio, con la menzogna, e la verità rende liberi; ma gli uomini liberi sono visti come dei pericoli, anziché come costruttori qualificati del bene comune.  La Chiesa è come una barca in mezzo al mare della storia: onde e burrasche la colpiscono e lasciano i segni, ma essa deve procedere con umiltà, fiducia e coraggio, sapendo che le pesantezze dei suoi figli non possono capovolgerla poiché il grande nocchiero – Gesù – le assicura la traversata nel tempo per il bene dell’umanità. È sempre vero e attuale il detto per cui un albero che cade fa più rumore della foresta che cresce! La Chiesa deve vivere di fede, e rinnovare la fiducia anche quando il Maestro, come nel racconto evangelico, sembra dormire. 
 
Ora desidero, come sempre, dare alcune informazioni circa l’azione delle nostre realtà caritative, parrocchie, associazioni, enti.  Presentano una lettura dei principali disagi presenti sul territorio della Diocesi e come cerca insieme di rispondere. In questo anno, dai 34 Centri di ascolto vicariali, sono state prese in carico 5.400 persone con un sostegno economico pari a 1.300.000 euro derivanti in gran parte dall’otto per mille. Per la prima volta, gli uomini che hanno chiesto aiuto hanno superato le donne: prima della grande crisi, gli uomini non superavano il 30%, mentre gli stranieri non arrivano al 50%. Le richieste riguardano prevalentemente le utenze e il lavoro, rinunciando anche a cure mediche non strettamente necessarie. Purtroppo, cresce la fragilità psicologica che rende più difficile un progetto di promozione sociale delle persone. Inoltre, nell’anno sono stati assicurati 450.000 pasti e – per quanto riguarda un ricovero per passare la notte – quasi 300 sono i posti letto in strutture sia laiche che ecclesiali. Purtroppo tende a crescere la piaga dell’usura: a fine settembre gli interventi erano 154 per un totale di 845.000 euro (il 30% in più rispetto allo scorso anno), e per quanto riguarda l’emergenza famiglie, sono stati fatti 115 interventi per 75.000 euro su segnalazione dei Centri di ascolto vicariali. Purtroppo, la piovra del gioco d’azzardo continua ad espandersi, e avvelena il modo di pensare e di vivere, creando illusioni, delusioni e tragedie a tutte le età.  Cari Amici, la Chiesa non è una ONLUS né deve supplire le Istituzioni, ma fa parte della sua missione annunciare Gesù e aiutare i bisognosi come meglio può: Vangelo e carità sono l’intreccio vitale della sua storia, ieri e oggi. Per questo le attività dei cristiani non sono innanzitutto opere che rispondono ad un imperativo etico, ma piuttosto continuano l’opera del divino Maestro, la sua presenza di salvezza e di redenzione. Per questo sono opere corredentrici!  Perdere questa consapevolezza, significa diventare una società filantropica: ma il mondo ha bisogno sia del pane della tavola e sia del pane dell’anima. 

Genova
 
Guardiamo ora la Liguria, la nostra splendida terra dove Genova è così ricordata da Richard Wagner in una sua lettera: “Anche oggi la mirabile impressione di Genova domina i miei ricordi d’Italia. Per vari giorni ho vissuto una vera estasi: incapace di seguire un piano prestabilito per visitare i capolavori della città, mi abbandonai al godimento di quel nuovo ambiente in una guisa che si potrebbe chiamare musicale. Io non ho mai visto nulla come questa Genova! E’ qualcosa di indescrivibilmente bello, grandioso, caratteristico” (Dalle lettere a Minna Wagner, 1853). Nei molti incontri prenatalizi, non poche persone, che qui sono venute da fuori Genova o da fuori Italia per lavoro, mi dicevano sorridendo che noi genovesi non sempre sembriamo consapevoli della bellezza e della qualità della vita che essi qui hanno scoperto. Ho sentito un simpatico richiamo ad amare di più la nostra Città, ad esserne più consapevoli e a farla conoscere nel mondo per condividerla con altri.
  
Dopo la tragedia del ponte Morandi, continua il senso di appartenenza, il desiderio di partecipazione, l’orgoglio di farcela stringendosi gli uni agli altri come le case nei nostri vicoli. Stare stretti nella fiducia e nella benevolenza vicendevoli non è chiudersi a nessuno, ma al contrario è la condizione per una accoglienza affidabile, dove ognuno porta ciò che è, e riceve la compagnia di cui tutti abbiamo bisogno. Questa tensione benefica è un bene incomparabile, dobbiamo tutti custodirlo e accrescerlo, perché ognuno è importante e ha qualcosa da fare e da dare. Non si tratta solo di chi ha maggiori responsabilità istituzionali, ma di tutta la società civile, cioè di noi che la formiamo, a cominciare dal mondo della cultura, dell’imprenditoria, dei servizi, dei corpi intermedi, della burocrazia. Sappiamo che né a livello politico, né a quello sociale, è sufficiente la buona volontà: sono necessarie competenze specifiche: a livelli di responsabilità, infatti, l’improvvisazione è azzardo. Ma, ciò detto, nessuno può stare alla finestra a guardare e a giudicare passivamente. Questo supplemento di partecipazione è motivato anche da ciò che si sente: la nostra Regione sembra avere la media di ricchezza più alta d’Italia, una ricchezza che sempre più e meglio deve circolare per creare lavoro, occupazione, sviluppo, benessere per tutti.  È un dovere morale. La vocazione di Genova sta nella sua posizione geografica: il mare, l’industria, il turismo crescente, sono scritte nella sua storia, nel nostro cuore. Le vie di comunicazione sono ormai nella concreta convinzione di tutti, la sicurezza e la velocità ne sono condizione perché Genova sia raggiungibile in entrata e in uscita; perché si faccia desiderare come sede di attività, di conoscenza, di abitabilità. Le difficoltà ci sono, e bisogna far sempre più presto perché la Città sia cosmopolita e bella, vivibile non solo per il fine settimana, ma anche per lavorarvi come già molti fanno.
 Nel cuore di Genova da sempre è scritta la via del mare, ma è anche scritta la via del nord. I forti che, sui nostri monti la circondano come una corona, devono vedere una città che si espande non tanto nello spazio che è esiguo, ma nel movimento, nelle vie di comunicazione, vie di commercio e di incontro, di scambio e di sviluppo. Il modo di dire genovese – si è sempre fatto così – racchiude il valore della stabilità e della tradizione – ma deve anche guardare avanti, verso il nuovo, senza perdere se stesso. Rinchiudersi per non essere disturbati sarebbe mortale. Il movimento riguarda non solo le vie, ma anche l’accoglienza e le regole: tutto deve essere più snello, sereno, all’insegna della legalità, ma senza paure che paralizzano. E’ necessario guardare con simpatia, non con sospetto e freni preventivi, ogni volto nuovo, ogni volontà di sviluppo, ogni iniziativa di lavoro che porti occupazione. Le serie preoccupazioni lavorative, che riguardano il Paese e in parte la Città, non solo esigono lungimiranza, realismo e prudenza perché ci sono migliaia di persone e famiglie in ambascia, ma anche spingono ad allargare l’orizzonte imprenditoriale, la capacità di creare sviluppo nel piccolo e nel grande, la fantasia e la passione di fare la propria parte in un sfida che deve vedere tutti, in particolare coloro che hanno possibilità di risorse, esperienza e coraggio per creare occupazione. 
Sembra che non pochi siano gli spazi vuoti difficili da colmare (medici, infermieri, OSS, ingegneri, esercenti, saldatori…), e nello stesso tempo non pochi sono alla ricerca di occupazione. Ciò sollecita una migliore coniugazione tra domanda e offerta, un capillare orientamento verso le richieste reali; forse anche una preparazione umana più completa, nel senso che è giusto desiderare di lavorare secondo la preparazione conseguita, ma nello stesso tempo – come in altri Paesi moderni – è necessario coltivare duttilità e concretezza, pazienza per entrare comunque nel mondo del lavoro. I recenti indici ufficiali dell’occupazione sembrano essere cautamente positivi, e questo è ben venuto; nello stesso tempo non dobbiamo perdere di vista l’obiettivo doveroso della stabilità lavorativa, senza la quale si può forse sopravvivere ma non progettare la vita e la famiglia.  Se guardiamo più lontano, al nostro splendido Paese, ci auguriamo che la politica risponda alle giuste aspettative del nostro popolo: aspettative che tutti riconoscono nelle priorità del lavoro, della famiglia e della cultura. Le tre urgenze devono essere perseguite senza ritardi o distrazioni di nessun genere: quando si tratta di questioni di fondo per il bene di una Nazione, ogni interesse di parte, ogni ricerca di consenso a scapito della ragionevolezza, devono cedere il passo all’obiettivo generale. Non importa da dove provenga una proposta: se è buona tutti devono riconoscerla e condividerla, perché lo scopo non è intestarsi dei meriti, ma rispondere alle esigenze oggettive della gente. Agire diversamente è lontano dalla buona politica, lontano dall’onore che ogni politico, investito di responsabilità, deve avere come recita la Costituzione: “I cittadini, cui sono affidati funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” (Costituzione Italiana, art. 54). L’onore di cui si parla non è l’onore del potere, ma l’onore di servire il Paese sacrificando se stesso.Ovunque nel mondo, la faziosità, la smania di decidere le sorti,  la delegittimazione come metodo, l’improvvisazione, lo scontro urlato anziché il confronto civile, l’uso degli slogan – metodo indegno della ragione -, la sudditanza ai luoghi comuni…avvelenano l’aria dei Popoli, fomentano sospetti e pregiudizi antireligiosi, razziali, xenofobi, che sarebbe grave fossero strumentalizzati da chiunque, ma sarebbe altrettanto grave non riconoscere e non condannare pubblicamente, reagendo con un ben più grande lavoro educativo. A quanti hanno subito violenza e dolore esprimiamo la nostra vicinanza, assicuriamo la preghiera, insieme ad un rinnovato impegno perché si affermi “la civiltà dell’amore” di cui parlava il Santo Pontefice Paolo VI. I grandi Statisti hanno pensato in grande e – per il supremo bene del Paese – hanno saputo trovare vie di sintesi alta anche per problemi la cui soluzione avrebbe cambiato il corso della storia. Sapevano che il vero scopo della politica è la giustizia e la pace, ed erano consapevoli che, per raggiungere lo scopo, era necessario conoscere chi è l’uomo. Avevano, quindi, una visione antropologica integrale, avevano maturato quel personalismo comunitario che ha radici nell’universalismo evangelico, che da duemila anni genera civiltà, cultura, bellezza. Appunto, pensavano in grande, e vedevano lontano per il bene del Paese! Sapevano anche che l’uomo viene prima del puro guadagno. Sotto questo profilo, è sempre più chiaro che la finanza è oggi troppo invasiva, che deve fare un passo indietro rispetto all’economia reale: essa è necessaria, ma oggi risponde al criterio del massimo profitto nel minor tempo possibile. Quando la finanza lega la politica a sé fino a imporre le sue dinamiche, non solo la condiziona in modo indebito, ma finisce per strangolarla. Come spesso oggi si vede nel mondo.  

Alla luce del personalismo, i grandi Statisti riconoscevano nella famiglia il nucleo fondamentale della società, grembo di vita e di formazione di cittadini consapevoli e onesti. Per questa ragione uno Stato avveduto non “sostiene” la famiglia, ma “investe” sulla famiglia, sapendo che investendo sulla famiglia si sostiene l’individuo. Per questo motivo l’istituto familiare non può appartenere a nessun dicastero: la sua centralità è talmente onnipresente che dovrebbe essere all’ attenzione diretta dell’autorità di vertice. Affermare e promuovere questa centralità morale e politica è dovere della comunità cristiana e servizio allo Stato e alla società. Ricordiamo: sotto la schiuma che porta a galla il peggio, esiste la vita che brulica, un popolo di semplici – non perché sprovveduti ma perché saggi – che si comporta bene senza clamore; che lavora con onestà, che è fedele agli affetti, che si spende per la famiglia, che si dedica all’educazione dei figli e dei nipoti, che si sacrifica per gli altri senza sentirsi degli eroi, anche se spesso lo sono senza saperlo. A loro diamo onore e diciamo grazie. Così come incontriamo molti giovani preparati, seri, volenterosi, desiderosi di stare a Genova per farsi una famiglia e contribuire al bene della Città. Daremo una risposta a questi giovani? Quando vado negli uffici o nelle fabbriche e trovo la loro presenza, sento l’aria cambiata, vedo che anche i più adulti sono più motivati e lieti, più coesi; desiderosi di condividere la loro esperienza, e curiosi nel vedere la loro voglia di fare, di scoprire, di portare se stessi. Questa è bellezza e promessa di futuro per tutti. 
Cari Amici, il Signore della vita e del tempo accolga le riflessioni che abbiamo fatto tra noi, e che esprimono a Lui speranze, preoccupazioni, propositi. Vi dico grazie perché ci siete, mentre con affetto di Padre e Pastore vi auguro un anno di impegno e di serenità da vivere insieme.