Psicosi Covid-19, italiani "untori": coppia genovese prigioniera in un ospedale cubano da tre giorni
di Michele Varì
L'odissea di Marta e Filippo trattati come appestati. Appello su Facebook: "Aiutateci a tornare a casa"
Erano partiti per una vacanza di cultura e sole nei mari tropicali di Cuba il 27 febbraio, quando ancora in Italia il coronavirus era un incubo solo a Codogno, ma è stato sufficiente un filo di febbre di Marta e la psicosi coronavirus e il viaggio di una coppia genovese si è trasformato in un autentico incubo.
Marta Cavallo (nella foto) e Filippo Colotto, 36 e 37 anni, lei assistente sociale del comune di Genova, lui ingegnere, da tre giorni sono prigionieri in una vetusta clinica di malattie infettive de L'Avana.
Trattenuti perchè ritenuti potenziali portatori del coronavirus, come hanno intuito dopo che si è sparsa la voce a Cuba, notizia fra l'altro poi smentita, che tre italiani dell'isola sarebbero risultati positivi.
"Aiutateci a tornare a casa e mettete fine a questo inferno" ha scritto Marta insieme a Filippo sulla sua pagina di Facebook, una sorta di disperato appello digitale, pare già accolto dall'avvocato genovese Alessandra Ballerini, specializzata nella difesa dei migranti e dei diritti umani che forse non si sarebbe mai aspettata di dovere assistere due genovesi maltrattati a Cuba, l'isola del comunismo di Fidel.
"Saremmo dovuti ripartire per l'Italia con un volo stasera, ma invece siamo rinchiusi in questa topaia - racconta Marta rispondendo al telefono del compagno, con un tono di voce che conferma quanto sia provata dalla segregazione nell'ospedale - la nostra odissea è inziata mercoledì quando siamo stati svegliati in piena notte da persone con un camice ci hanno strappato dal nostro alloggio e portati in questo ospedale per accertamenti perché erano stati trovati casi di Covid-19 a Cuba. Dicevano che entro 4 ore saremmo ritornati se avessimo avuto esito negativo. Ci hanno fatto il prelievo alle 9,30 del mattino, dopo nostre insistenze alle 14 un medico ci ha detto che i nostri esami andavano bene. Da allora nessuna notizia. Un incubo". La donna ipotizza che a metterli nei guai potrebbe essere stata una donna che gestiva la casa dove avevano dormito quando lei aveva la febbre, "deve essere stata lei a dire alle autorità che potevamo essere contagiosi, anche se ormai io stavo bene..."
"Siamo - racconta ancora la donna - in un ospedale tremendo, il Pedro Kouri di La Lisa vicino alla capitale L'Avana, in condizioni igienico sanitarie drammatiche, ci danno solo dei panini, una zuppa senza posate e il bagno è senza carta. Ed è impossibile parlare con i medici perchè siamo segregati, allo stremo delle forze fisiche e psicologiche, preoccupati, stanchi, devastati, debilitati. Siamo in contatto con la Farnesina e con l'ambasciata ma l'unica cosa che ci hanno portato è stata una bottiglietta d'acqua, condividete il nostro messaggio per favore, noi siamo negativi, vogliamo solo tornare a casa, abbiamo diritto a tornare nel nostro paese". Marta aggiunge ancora rivolta agli amici di Fb: "Mettete fine a questo inferno" e al telefono spiega a Telenord: "Io per lavoro mi sono spesso occupata di migranti e ho sempre cercato di aiutare tutti, qui invece gente che mi ha visto disperata e in lacrime ha fatto finta di niente". "Adesso non vedo l'ora di tornare nella nostra casa del centro storico. Ritroverò un' Italia e Genova deserte per il virus? Non mi importa, voglio andare via da questo posto terrificante e, state certi, che un po' non uscirò più dall'Europa".
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