Inquinamento, contro le microplastiche un nuovo materiale che si dissolve in mare
di Andy Woodrook
Secondo un recente studio dell’istituto giapponese Riken, il più grande centro di ricerca nazionale multidisciplinare fondato nel 1917, un nuovo materiale plastico sperimentale potrebbe contribuire a ridurre l’impatto delle microplastiche negli oceani. La sostanza, sviluppata dal gruppo guidato da Takuzo Aida, si degrada completamente in acqua salata, aprendo la strada a possibili soluzioni contro una delle principali emergenze ambientali del nostro tempo.
Inquinamento marino – Le microplastiche, frammenti inferiori a 5 millimetri, sono ormai presenti in ogni angolo del pianeta: negli oceani profondi, nell’Artico e persino nell’aria che respiriamo. Studi recenti le hanno rilevate anche nel sangue e nel cervello umano. Sebbene gli effetti sulla salute non siano del tutto chiariti, è noto che nelle specie animali possano rallentare la crescita, ridurre la fertilità e provocare disfunzioni degli organi.
Nuovo materiale – Il team Riken ha messo a punto una sostanza simile per peso e resistenza alle plastiche convenzionali, ma capace di degradarsi rapidamente in acqua di mare. Questo sviluppo si basa su tre decenni di ricerca di Aida sulle polimeri supramolecolari, caratterizzati da legami deboli e reversibili, paragonabili a “post-it che si possono attaccare e staccare”, spiega lo scienziato. Questi materiali possiedono proprietà uniche, come la capacità di autoripararsi e la facilità di riciclo.
I limiti delle alternative – Le plastiche biodegradabili, come l’acido polilattico (PLA), sono spesso presentate come soluzioni sostenibili. Tuttavia, la loro degradazione è lenta e inefficace in mare: il PLA, pur biodegradandosi nel suolo, resta integro in ambiente marino e si frammenta in microplastiche non degradabili da microrganismi. Secondo Aida, era necessario un materiale capace di mantenere solidità meccanica ma di disgregarsi rapidamente in condizioni controllate.
L'equilibrio migliore – Dopo numerosi test, i ricercatori hanno trovato una combinazione tra esametafosfato di sodio, comune additivo alimentare, e monomeri a base di guanidinio, impiegati come fertilizzanti. Questi elementi formano legami incrociati detti “ponti salini” (salt bridges) che garantiscono forza e flessibilità al materiale. “Cercare molecole può sembrare come trovare un ago in un pagliaio”, racconta Aida. “Ma questa volta la combinazione è stata individuata presto, dandoci fiducia nella riuscita del progetto”.
La sperimentazione – In laboratorio, la miscela ha generato spontaneamente un doppio strato: uno superiore acquoso e uno inferiore viscoso, da cui è stato ricavato un foglio simile alla plastica. Il materiale si è rivelato resistente quanto le plastiche tradizionali, non infiammabile, trasparente e versatile. Quando immerso in acqua salata, il foglio si è disintegrato in circa otto ore e mezza, tornando ai composti di partenza. Anche se rivestito con un film idrorepellente, il materiale si dissolve ugualmente se la superficie viene incisa e il sale può penetrare.
Impianti controllati – Una caratteristica ulteriore è che la degradazione rilascia azoto e fosforo, elementi che i microrganismi possono metabolizzare e le piante assorbire. Tuttavia, un eccesso di nutrienti in mare potrebbe generare fioriture algali dannose per gli ecosistemi costieri. Per questo Aida suggerisce di privilegiare il riciclo in impianti controllati con acqua salata, recuperando i materiali di base per nuove produzioni.
Sfida industriale – Nonostante i progressi scientifici, la trasformazione industriale rimane complessa. “Le plastiche, in particolare il PET usato per le bottiglie, sono difficili da sostituire per la loro versatilità e convenienza”, osserva Aida. Con infrastrutture consolidate e catene produttive radicate, l’industria fatica a cambiare. Ma, aggiunge il ricercatore, “arriverà un punto di svolta in cui sarà necessario forzare il cambiamento. Una tecnologia come questa sarà fondamentale in quel momento”.
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