Dalla yacht alla motovedetta: dopo Draghi c’è solo Draghi
di Giampiero Timossi
Anche la Liguria ha bisogno dell'ex presidente della Bce. In caso contrario resterà solo un Paese in altro mare. In balia dei pescecani
Dal Britannia alla Capitaneria di Porto, dallo yacht reale alla motovedetta genovese. Per un sommario ritratto di Mario Draghi possono aiutare anche due immagini e due storie decisamente lontane tra loro. Per spazzar subito via ogni possibile equivoco aiuta ricordare che il premier non è mai stato un navigante, ma è piuttosto un italiano con un alto senso dello Stato.
Il primo fotogramma risale al 2 giugno del 1992. Quel giorno, più di trent’anni fa, un’associazione di banchieri del Regno Unito, The British Invisibles, organizza un incontro sullo yacht reale Britannia. Tra gli invitati c’è il direttore generale del Tesoro, Mario Draghi. Con lui anche l’ex ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, il banchiere Giovanni Bazoli, il direttore generale di Confindustria Innocenzo Cipolletta, il presidente di Eni Gabriele Cagliari, l’economista della gauche Luigi Spaventa e il tributarista della droit Giulio Tremonti.
È in corso il terremoto Mani Pulite, alcuni diranno che proprio quell’associazione di banchieri, dal nome che pareva uscito da un libro di Ian Fleming, fosse uno dei centri segreti per mandare a gambe all’aria la Prima Repubblica. Teorema azzardato, mai provato e dunque falso. In realtà quella crociera sul Britannia venne organizzata a seguito della scelta presa dall’ultimo governo Andreotti di avviare una serie di privatizzazioni dell’industria di Stato. Draghi salì sul Britannia, tenne la sua relazione, ma a differenza degli altri invitati scese dallo yacht prima che salpasse verso l’Argentario.
Ci andò, perché quella era una “rivoluzione” economica che andava spiegata da chi aveva già credito su mercati internazionali: privatizzare era l’unico modo per salvare i bilanci dell’Italia, far parte con dignità del nuovo contesto europeo e mondiale, evitare sviluppi drammatici come quelli che poi travolsero la Grecia. Privatizzare fu (in parte) una decisione dolorosa, si pagò un prezzo in termini occupazionali. Dolorosa, ma indispensabile. Però Draghi, già in quel passaggio cruciale dimostrò di essere uomo capace di gestire problemi complessi: fece la sua parte, senza compromissioni. Per alcuni questa è una macchia nella sua esperienza professionale? L'analisi non solo è superficiale, ma sbagliata: agì nel rispetto dei ruoli, con educazione civica, nell'interesse dello Stato. E raggiunse un obiettivo insispensabile per il Paese.
Ventinove anni dopo, 9 febbraio 2022: una motovedetta della Capitaneria di Porto attende Mario Draghi alla Marina di Sestri Ponente, il premier è appena atterrato a Genova. Con lui pochi invitati salgono a bordo, il governatore Giovanni Toti, il sindaco Marco Bucci, l’ex viceministro Edoardo Rixi. Viaggio breve fino al Porto di Genova, il cuore della città. È una visita lampo, ma anche un bastimento carico di simboli. Draghi, a modo suo, con garbo e in punta di piedi, vuole visitare quella città che considera un simbolo di una nuova resistenza, dopo il crollo di Ponte Morandi, verso quella che sembra la fine dell’incubo Covid. E in Liguria il Pnrr porterà 7 miliardi e opere decisive per i prossimi cinquant'anni, una modernizzazione che ha nella nuova diga portuale, nel terzo valico e nella gronda le infrastrutture simbolo.
Draghi non aveva nel 1992 e non ha oggi un approccio ideologico ai problemi, apprezza il lavoro di Toti e Bucci, le loro visioni. È un amico di Genova e della Liguria, nel senso vero (unico) del termine, lontano da qualsiasi logica clientelare. Toti lo dice da mesi, lo ripete in questi giorni: “Dopo Draghi solo Draghi”. Aggiunge: “Per affrontare problemi complessi servono uomini dalle qualità complesse”. Ha ragione. Ora anche il governatore dovrà usare la sua abilità politica per convincere il premier. C'è una sola opzione: continuare il lavoro iniziato, non smetti di giocare anche se porti il pallone e i tuoi ti riempiono di autogol. Al massimo cerchi nuovi compagni di squadra, più leali. In fondo è il senso di quanto ha detto il Presidente Sergio Matterella, respingendo una prima volta le dimissioni di Draghi.
Non puoi smettere di giocare per il “blablare” (come direbbe Maurizio Crozza nei panni di Flavio Briatore) di quattro Cinque Stelle spaccati da lotte intestine e desiderosi di garantirsi i soliti voti di protesta alle prossime elezioni. In un surreale discorso alla Camera una di loro chiedeva con ansia spasmodica e fastidiosa “risposte”. Il vero problema di certi politici è che neppure sanno porre le domande giuste. Quando Matteo Renzi si adoperò per far cadere il governo di Giuseppe Conte fece un vero azzardo, anche per il Paese, immerso in un’emergenza pandemica che l’esecutivo a trazione pentastellata non aveva poi gestito in modo sciagurato. Ma sapeva che l’alternativa a Conte era migliore rispetto a Conte. Era Draghi, era come far scendere in campo Diego Armando Maradona e sostituire un mediano affidabile come Luca Fusi.
Solo Draghi ha saputo e saprebbe gestire le difficoltà di un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che non è davvero un punto di arrivo e tantomeno un semplice diluvio di miliardi. Il Pnrr è (anche) un carico di difficoltà, cosa che Toti per esempio sa bene, non trascurando con lucidità i tempi di attuazione dei progetti (2026) e il rischio che questa fretta sia un freno per innovare davvero il nostro Paese. In questo contesto, la Liguria è davvero un grande laboratorio europeo, con le sue specificità, i suoi recenti exploit, i suoi drammi, i suoi antichi ritardi, la sua voglia di rilancio con i suoi 7 miliardi. Per questo (anche) la Liguria ha bisogno che Draghi continui la navigazione e guidi la nave in porto. In caso contrario resterà solo un Paese in altro mare. In balia dei pescecani.