Quaresima, la lettera di Marco Tasca sulle carceri: "Nessuno sia lasciato indietro"
di M.C.
Lettera pastorale dell’Arcivescovo nel tempo di Quaresima per invitare a vivere la misericordia nei luoghi della detenzione

Nel tempo di Quaresima, l’Arcivescovo di Genova Marco Tasca ha scritto una lettera alla comunità diocesana per richiamare l’attenzione sul mondo carcerario, in sintonia con il messaggio di Papa Francesco per l’Anno Santo 2025. Le case circondariali di Marassi e Pontedecimo sono state designate come “luoghi giubilari”, dove vivere opere di misericordia e percorsi di speranza.
Monumento simbolico – Mons. Tasca apre la sua riflessione citando il monumento alla Polizia Penitenziaria nel cimitero di Staglieno: due mani che sorreggono una grata e la scritta “La fatica di mantenere una divisione tra gli uomini”. Il carcere, scrive l’Arcivescovo, è divisione per sua natura, un confine tra il dentro e il fuori, tra libertà e privazione.
Vocazione alla comunione – La Chiesa, per vocazione, è chiamata a costruire ponti. Tasca sottolinea che, pur nella sua necessità, la separazione prodotta dal carcere interpella profondamente la comunità cristiana. “Crediamo in un Dio che è comunione”, scrive, e per questo la divisione va affrontata con spirito di misericordia.
Fragilità e peccato – L’invito dell’Arcivescovo è a considerare le nostre “gabbie invisibili”: dipendenze, pregiudizi, pensiero unico. Anche chi è libero può vivere forme di prigionia. La visita ai carcerati, aggiunge, è una delle opere di misericordia volute da Cristo “senza distinzione tra colpevoli o innocenti”.
Parabola del Padre misericordioso – Il percorso spirituale della Quaresima viene riletto alla luce della parabola del figlio prodigo. L’allontanamento da Dio, spiega Tasca, nasce da un’illusione di libertà che porta alla schiavitù. Anche la detenzione, allora, può diventare occasione di ritorno, pentimento e conversione.
Missione della Chiesa – La Chiesa è presente nelle carceri da sempre, con cappellani, religiosi, volontari. Nessun proselitismo, precisa Tasca, ma un accompagnamento rispettoso e discreto. L’obiettivo è offrire ai detenuti “la testimonianza che una vita nuova è possibile”.
Accoglienza e reinserimento – Alla figura del padre misericordioso viene contrapposto il fratello maggiore della parabola, incapace di accogliere. È l’interrogativo posto anche alla società: “Quale accoglienza riserva a chi torna alla libertà?”. Per il Vescovo, il carcere non è un corpo estraneo, ma parte integrante del popolo di Dio.
Strumenti concreti – In questo spirito, nasce il progetto di un Centro di Ascolto Diocesano dedicato ai detenuti e alle loro famiglie, sull’esempio della Fondazione Anti Usura. Un luogo di ascolto e accompagnamento, anche per favorire misure alternative alla detenzione e contrastare l’isolamento sociale.
Giubileo nelle carceri – Nell’Anno Santo, Marassi e Pontedecimo sono “luoghi giubilari” dove vivere esperienze concrete di misericordia. Il Giovedì Santo, nella Messa in Coena Domini in Cattedrale, l’Arcivescovo consegnerà un cero pasquale a una rappresentanza dei due istituti. Un segno di comunione e impegno a celebrare, con i detenuti, un momento giubilare nel tempo pasquale.
Cammino comune – Il carcere, conclude Tasca, interpella l’intera comunità ecclesiale: “Camminare verso Cristo significa non lasciare nessuno indietro”. Anche nel mondo della detenzione può risplendere la luce del Risorto, nella speranza di una vita riconciliata.
Ecco il testo integrale della lettera dell'Arcivescovo di Genova:
Cari fratelli e sorelle,
nel cimitero di Staglieno, in quella parte in cui si trovano i monumenti dedicati ai caduti delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine, c’è anche quello dedicato alla Polizia Penitenziaria (il corpo di polizia, ex Agenti di Custodia, a cui sono affidati gli istituti di pena della nostra nazione che a Genova sono la storica casa circondariale di Marassi e quella più recente di Pontedecimo).
Il monumento è semplice ma suggestivo: una grata sorretta da due mani e l’iscrizione che commenta “La fatica di mantenere una divisione tra gli uomini”.
Il carcere è divisione: o fuori o dentro, esseri umani liberi o privati della libertà. Un mondo separato dalla comunità esterna, al punto che la sua vita nascosta è solitamente ignorata da chi vi passa accanto e magari si limita ad una distratta occhiata all’edificio.
Noi crediamo in un Dio che è comunione, e percepiamo tutto ciò che divide come qualcosa di contrario alla sua volontà, contrario al vangelo e infine all’uomo stesso. Tuttavia la divisione del carcere si rivela, nel realismo dell’esistenza terrena, almeno in parte necessaria e inevitabile e pone un compito e una sfida alla Chiesa.
Desidero quindi raggiungervi in questo tempo quaresimale per proporvi una particolare attenzione a questo mondo, in sintonia con quanto espresso da Papa Francesco nella bolla di Indizione del Giubileo: “saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle detenuti” (Spes non confundit, 10).
La riflessione sul carcere può esserci di stimolo a considerare tutto ciò che può limitare le nostre libertà personali. Anche noi, esseri ‘liberi’, siamo spesso rinchiusi in gabbie invisibili fatte di dipendenze e di pregiudizi, di asservimento alla moda o al pensiero dominante, di manie complottiste, dell’incapacità di esercitare un pensiero critico. E tutti, senza esclusione, dobbiamo avere la consapevolezza della nostra fragilità e del nostro peccato; specie quando quest’ultimo può essere di fronte a Dio molto più grave del ‘reato’ che ha portato in carcere un nostro fratello.
Questa consapevolezza su noi stessi ci aiuti a guardare il mondo dei carcerati con occhio
non giudicante ma cristianamente compassionevole, come sempre la Chiesa ha fatto in obbedienza alle indicazioni di Cristo il quale ha posto la visita ai carcerati (non a quanti sono ingiustamente carcerati, ma a tutti indistintamente) sullo stesso piano delle altre opere di misericordia (cfr. Mt 25). Possiamo ripercorrere il cammino di perdita e ritrovamento della libertà attraverso la lettura della parabola di Lc 15 sul “Padre misericordioso”, che ascolteremo nella 4ª domenica del tempo di Quaresima.
“Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta” […] E il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto (Lc 15,12.13)
Nell’atteggiamento del figlio più giovane ritroviamo il fondamento di ogni peccato: uscire dalla casa del Padre, svincolarsi dalla sua comunione nel tentativo di affermare la propria autosufficienza, nell’illusione di conquistarsi una propria libertà, ricerca che porta alla schiavitù della miseria e della solitudine.
Ogni storia personale che porta al carcere è ovviamente più complessa: molteplici le cause che possono aver portato al reato, a volte anche episodi ‘accidentali’, non deliberatamente scelti o voluti, “incidenti di percorso”, ma spesso ci imbattiamo in comportamenti dove si è sviluppata l’insofferenza o l’incapacità di vivere secondo le regole e le esigenze della società. Allora è più difficile indurre il reo alla revisione di vita perché possa rendersi consapevole del suo errore e avviare un percorso di ‘reinserimento’ o, in termini cristiani, di pentimento e conversione.
La pena calcolata in un tempo, giorni, mesi, anni, non può essere solo inutile e infruttuosa separazione dalla società, ma deve essere opportunità di ripensamento, come avvenuto per il figlio della parabola lontano dalla casa paterna.
Da sempre la Chiesa si è presa cura dei carcerati e anche oggi, pur in una mutata composizione della popolazione detenuta, dove alla pluralità dei paesi di provenienza corrisponde una varietà di confessioni religiose, continua la sua presenza significativa.
Attraverso l’opera dei cappellani e dei diaconi, di religiosi e religiose, di laici impegnati come volontari in associazioni più o meno specificamente dedicate al carcere, la Chiesa viene incontro ad ogni detenuto, senza fini di proselitismo ma offrendo ascolto, assistenza, vicinanza discreta e non giudicante.
Oltre a questa testimonianza di carità nella gratuità, ovviamente vi è l’assistenza spirituale per quanti professano la fede cattolica, aiutando i carcerati battezzati a riscoprire una vita cristiana.
La testimonianza che una vita migliore è comunque possibile e vale la pena di riscoprirla e di riabbracciarla.
Voglio quindi ringraziare quanti ogni giorno svolgono questo ministero di prossimità e di annuncio, di silenzioso e spesso nascosto servizio.
La decisione del figlio di tornare da dove era partito, anche se non dettata da un vero rimorso ma piuttosto da una considerazione di convenienza, è comunque supportata da una speranza, quella di essere in qualche modo riammesso nella casa del padre, fosse anche come “l’ultimo dei servi”. Alle braccia del padre aperte per riaccogliere il figlio con gioia, il vangelo contrappone le braccia chiuse del figlio maggiore, assolutamente incapace di partecipare alla felicità del padre per il ritorno di quel figlio “morto, ma tornato alla vita, perduto e finalmente ritrovato” (Lc 15,32).
Quale accoglienza riserva la società al carcerato che torna alla libertà? E quale deve essere l’atteggiamento della comunità cristiana? Per avviarsi su risposte concrete, che non si blocchino nei pregiudizi ma nemmeno indulgano a un ingenuo buonismo, la comunità ecclesiale deve sempre più avere presente che il carcere è parte di sé: non un ‘corpo estraneo’ cui prestare assistenza ma una porzione - anche se molto particolare – del popolo di Dio, affidata alla cura pastorale del
Vescovo e di quanti collaborano con lui.
Solo percependo il carcere come parte di sé stessa, la comunità ecclesiale potrà offrire in prima persona e stimolare la società stessa perché realizzi condizioni che favoriscano il ritorno del detenuto nella compagine sociale.
Chiamata da sempre ad essere via di comunione, la Chiesa può portare un grande contributo nell’essere ‘ponte’ tra il dentro e il fuori. È un bel segno di attenzione e di carità pastorale quando un parroco viene a trovare un detenuto, per sua iniziativa o perché richiesto dal detenuto stesso. Ma ci rendiamo conto di aver bisogno di interventi più strutturati.
Le ‘misure alternative alla detenzione’ sono una grande risorsa prevista dall’Ordinamento Penitenziario per garantire sia un reinserimento graduale e non traumatico nella società sia per ridurre la popolazione carceraria, i cui numeri indicano uno stato di sovraffollamento che pare cronico. Purtroppo l’attuazione di tali misure è resa difficoltosa perché spesso mancano le condizioni: possibilità di alloggio, opportunità lavorative; a volte anche offerte per un servizio di volontariato.
Le risorse sono sempre pochissime, ma forse potrebbero aumentare attraverso una sensibilizzazione e una disponibilità capillare da parte delle parrocchie e anche delle associazioni.
Ho dato quindi incarico di realizzare, anche come frutto concreto di questo Anno
Santo, un Centro di Ascolto Diocesano per le necessità dei detenuti e delle loro famiglie, su modello di quanto già avviene con il FAU (Fondazione Anti Usura). Uno sportello aperto, con molta discrezione e delicatezza, ai problemi delle famiglie dei detenuti, inserito nella rete ecclesiale, anche solamente per strappare le famiglie dalla loro solitudine, dalla stigmatizzazione da parte della società e per favorire percorsi di detenzione alternativa o di presa in carico di quei soggetti che ne manifestano la volontà, ma anche come sguardo aperto alle vittime dei reati e alle loro famiglie, per cui la Chiesa, da sempre ministra della riconciliazione, non può ignorare i percorsi ormai recepiti dal mondo della giustizia e proposti come ‘giustizia riparativa’.
Le carceri sono luoghi dove siamo chiamati a vivere le opere di misericordia e, come Chiesa che è in Genova abbiamo voluto sottolineare questo riconoscendo la casa circondariale di Marassi e quella di Pontedecimo quali luoghi giubilari. Essi sono luoghi aperti, nelle forme e nelle modalità consentite, per fare esperienza del richiamo evangelico “siete venuti a visitarmi” (Mt 25). I cappellani sono quindi a disposizione per concretizzare questa opportunità, che, laddove non si possa tradurre in una presenza fisica dentro i confini degli istituti penitenziari, può diventare occasione di testimonianza per gruppi e parrocchie, oppure di particolare attenzione delle stesse con momenti di preghiera e raccolte mirati. Il tempo quaresimale è tempo di cammino. Cammino sulla strada del nostro battesimo che ci chiama ad una continua conversione. Cammino comune del Popolo di Dio che non può lasciare nessuno indietro o ai margini. Cammino che sfocerà nel Triduo
Pasquale, dove ho chiesto alle direzioni dei due carceri cittadini, che i detenuti siano in qualche maniera protagonisti. Il giovedì Santo nella Messa in Cœna Domini consegnerò infatti a una rappresentanza delle due case circondariali un cero pasquale, segno di Cristo Risorto e della presenza del suo corpo che è la Chiesa e con questo gesto mi impegnerò a vivere all’interno di questi, durante il tempo pasquale e alla luce di quello stesso cero, un significativo momento giubilare.
Questo anno Giubilare e questo tempo quaresimale siano per tutti noi nuova occasione per non lasciare indietro nessuno, per camminare insieme verso Gesù Cristo, nostra Pasqua, nostra gioia, nostro tutto.
Ci accompagni la sicura intercessione di Maria Santissima, Madre della Speranza
Marco Tasca, Arcivescovo di Genova
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