Addio a Luca Vialli: campione meraviglioso, riservato e pirotecnico

di Claudio Mangini

L'ex attaccante della Sampdoria aveva 58 anni e lottava con un tumore al pancreas. Aveva da poco lasciato il suo impegno in Nazionale al fianco di Mancini per l'aggravarsi della malattia

È morto Luca. È morto Luca Vialli ed è difficile pure solo pensarlo, pensare di dirlo. Perché lo abbiamo pensato mille volte in questi mesi, in questi anni della sua battaglia, che potesse finire male, che Luca potesse non vincerla, e sempre abbiamo scacciato il pensiero indecente. E invece questo inizio d'anno  maledetto si porta via anche lui, dopo il dicembre in cui ci hanno lasciati Sinisa Mihajlovic, il rude buono, e Mario Sconcerti, il giornalista che tutti conoscevano e che sapeva coniugare vita e pallone. E’ morto il figlio che tanti avrebbero voluto avere, il fratello simpatico, quello che piace a tutti ma di cui non puoi essere geloso, come non lo erano i suoi fratelli di sangue.  È morto il gemello di Roberto Mancini, e quanto erano belli insieme. Da ragazzini, con addosso quei maglioni che a guardarli ora ti sembrano immettibili. E in quell’immagine, che ha fatto commuovere tutti, nel buio della sala dove andava in scena La Bella Stagione: l’abbraccio dopo la vittoria dell’Europeo, Luca e Robi. E Roberto lo ha spiegato così: «Luca non è un amico, è un fratello». E il senso in cui l’ha detto era assoluto, fratello più che gemello che era solo un’etichetta. E’ morto Luca, il papà e il marito, di una famiglia bionda e bella, in cui quell’uomo dalle spalle larghe poi limate dalla malattia aveva scelto un atteggiamento molto inglese, la riservatezza, la privacy. Che è una cosa molto bella: essere schivi.

Luca era tutto questo, ed è maledetto anche doverne scrivere al passato. Riservato e pirotecnico. E trascinatore. E pure mediano, anche se nella sua carriera, da folletto di fascia destra (non a caso) aveva voluto e saputo diventare bomber. Ma con una particolarità: con la grinta del mediano. «Io, per Roberto, ho sempre fatto il lavoro sporco», ha raccontato Luca, con il suo sorriso ammiccante, strizzando quegli occhi di un verde profondo e scuro, e naturalmente era un doppio senso – che capivi perché Luca lo accompagnava con una risata che cresceva mentre a lato degli i occhi tiravano le rughe d’espressione.

Luca è stato tante cose, nel suo rapporto con il calcio, voluto nonostante la sua famiglia cremonese e borghese non amasse particolarmente l’arte di tirare calci al pallone. E anche della sua famiglia si è parlato poco. Ancora riservatezza. Il ragazzo di buona famiglia, che viveva in un castello fuori Cremona che a 16 anni lascia la scuola (ma il diploma lo prenderà lo stesso, da grande). I primi calci nel Pizzighettone, la Cremonese. La Juve che lo corteggia, ma lui sceglie la Sampdoria di Mantovani. E lì nasce la favola. Perché quella è una squadra magica, con quel papà burbero e dolcissimo che è Paolo Mantovani, con lo zio Vujadin, che sa come far sbocciare i talenti. Con il dottor Borea, che sa tutto, sa come limare ogni minima tensione. E quel gruppo, dove si vive e si litiga, si vince e si perde sempre volendosi bene. E la frase che spiega tutto Luca l’ha messa nella quarta di copertina del libro che ha fortemente voluto – appunto La Bella Stagione – e recita così: «Non credete a chi vi dice che il calcio è una guerra. È uno sport e un gioco, e ai giochi si gioca con gli amici». Un altro Gianluca, il cui nome è diventato per tutti un po’ diverso – per Vialli Luca, per lui Gianlu -, e parliamo naturalmente di Pagliuca, l’ha spiegato nella sua autobiografia com’era Vialli, da compagno di squadra, un mattacchione che faceva scherzi anche sopra le righe, ma il compagno intelligente e saggio che sapeva rapportarsi nel modo giusto con tutti. Trovando il canale di comunicazione adatto a ciascuno. Il che vuol dire saper ascoltare, avere la capacità e la voglia di creare rapporti onesti, diretti.

Se penso a Luca, mi viene in mente così, pronto a fare uno scherzo, simpatico, e per quello scherzi potevi infuriarti ma durava un attimo. Bastava guardarlo. Mi viene in mente quando il Milan aveva quasi convinto Mantovani a cederlo e lui disse al presidente che non poteva fargli questo. Glielo disse con uno dei suoi sorrisi. Entrando in ginocchio nell’ufficio di presidenza di via XX Settembre 33, la sede della Samp. E a uno che entra in ginocchio in presidenza, che si può rispondere, se non quello quello che lui vuol sentirsi rispondere?

Vialli, Mancini, il Levante da vivere di freschezza e divertimento, La Ruota di via Oberdan a pranzo e Carmine, a Quinto, alla sera. I bigliettini profumati con i numeri di telefino sotto il tergicristalloi. Le moto d’acqua e la bicicletta quando una frattura da stress al metatarso, nell’anno dello scudetto, lo condannò a restare fuori, ma pensando che pedalare avrebbe aiutato a tornare in campo il prima possibile.

Luca che doveva essere il simbolo dell’Italia nel Mondiale italiano delle notti magiche e, invece, qualcosa non gira. E’ il Mondiale di Baggio e Schillaci. A Mancio va anche peggio, non tocca boccia. Luca torna per la semifinale con l’Argentina, e se Vicini si fosse fidato di più di quelli della banda Samp, in campo in quella partita ci sarebbe andato anche Vierchowod, l’uomo verde, e per Diego sarebbe stato una serata molto più difficile. Lo scudetto è un risarcimento, la rivincita. Wembley il culmine e il momento del dolore più bruciante: Luca è già venduto. Quella sera la Samp perde per una punizione inventata e una saetta di Ronny Koeman, ma un po’ ha già perso prima di scendere in campo, perché tutti sanno che quello è il passo d’addio di quel gruppo.

Poi c’è la Juve, e non è tutto facile all’inizio, nel primo biennio con il Trap in panchina. Infine, è l’estate del ’94, arriva un’altra faccia Samp, Marcello Lippi, e Luca decolla, diventa leader indiscusso, trascinatore, segna gol di potenza e acrobazia, diventa finalizzatore spietato come mai è stato. Gioca accanto a Del Piero e Ravanelli, è un trio da meraviglie, e lui è quello che prende per mano la squadra, la porta a vincere la Champions. Poi c’è il Chelsea. Che ha nome e blasone ma vittorie arrugginite dal tempo. Prima stagione, 1996-97, con Zola e Di Matteo: arriva la FA Cup. Vince anche da player-manager, giocatore allenatore, mettendo le mani sulla Coppa delle Coppe. In Nazionale, 59 presenze (3 da capitano), due Mondiali e un rimpianto: aver detto no a Sacchi, con cui il feeling non era al top. «Ma alla nazionale non si dice mai di no», rimuginerà anni dopo.

Allena il Chelsea, il Watford di Elton John, diventa arguto commentatore di Sky. «O il massimo o faccio una scelta di vita». Più tempo per una vita che non sia solo a forma di rettangolo e disegnato di verde. Fonda una onlus, con Massimo Mauro, che raccoglie fondi contro la Sla. E’ pure scrittore: The Italian Job, la sua prospettiva del calcio, e Goals, dove racconta la battaglia contro il tumore. Maledetto compagno di viaggio. «Non è bello averlo accanto, ma devo prenderne atto e sperare che un giorno si stanchi e mi lasci continuare la mia vita. Perché ho tante cose e anche l’esempio da dare alle mie figlie». Quel maldetto compagno di viaggio non si è stancato.