Vialli, la straziante lettera scritta un anno fa da un tifoso disabile

di Redazione

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"Prigioniero dentro il mio corpo, gioivo solo per le vittorie della tua Samp"

Vialli, la straziante lettera scritta un anno fa da un tifoso disabile

di Giovanni Battista Casareto


Queste parole di immenso straziante dolore non le avrei mai volute scrivere. Sono, ormai, giorni che pensando a Gianluca Vialli, morto l’altra mattina, a 58 anni, mi viene il magone e non riesco a trattenere le lacrime. Lacrime di tristezza, di amarezza, di rabbia per un uomo portato via da questo mondo e dalla sua bellissima famiglia, da una malattia incurabile, davvero troppo presto e crudelmente. Lacrime di nostalgia per il campione che è stato e per le gioie che ha saputo regalarmi con i gol, le tante vittorie con la maglia della mia squadra del cuore, le Coppe Italia, la Coppa delle Coppe, e l’immensa cavalcata dello scudetto, il primo per la Sampdoria che forse resterà l’unico, in quel magico campionato 1990-91. Tra me e lui ci dividono soltanto un po’ di mesi di differenza, mentre con il suo amico fraterno e “gemello del gol” Roberto Mancini poco più di un anno. Io sono del 1963, loro entrambi del 1964. Quindi siamo stati quasi coetanei; un solo anno ci divideva, ma anche molto altro.

Purtroppo io non ho mai potuto correre dietro ad un pallone e calciarlo, giocare con gli amici e praticare altri sport.  Solo un po’ di nuoto riabilitativo, che però servì a poco.  La mia vita è stata segnata da un errore medico avvenuto subito dopo la mia nascita. Sono disabile con una tetraparesi spastica distonica sin dai primissimi giorni, che nel corso del tempo si è ulteriormente aggravata, tanto da costringermi a muovermi soltanto seduto su una carrozzina elettrica. La mia gioventù non è stata come la loro, carica di fama e successo, ma una strada tortuosa, spesso in salita, fatta prevalentemente di tanta solitudine ed impotenza, crisi depressive e discriminazioni varie.  Sentirsi prigioniero dentro ad un corpo che non avresti mai voluto avere e invece doverci convivere e trovare la forza di andare avanti, cercando un appiglio, aggrapparsi a qualcosa di bellissimo e magico, che mi allontanasse per qualche ora dai tormenti e dalle amarezze che mi avvolgevano e non mi davano pace.


E l’unico, il solo modo di gioire era quando la domenica pomeriggio ascoltavo alla radio  la partita della Samp ed esultavo, gridavo come un pazzo, quando il radiocronista raccontava il vantaggio o la vittoria dei blucerchiati, il più delle volte con le reti di Gianluca su assist di Roberto.  A quei tempi, che sembrano preistorici, il campionato non veniva trasmesso in tv, non c’erano né anticipi e né posticipi e nemmeno le televisioni a pagamento. Ci si doveva accontentare di quello che passava il convento, aspettare fin dopo le 18, quando a Novantesimo minuto davano i primi servizi sulle partite, le azioni più importanti  e i gol decisivi. Di seguito verso le 20 su RaiDue c’era Domenica Sprint e poi, in seconda serata, La domenica sportiva. Qualche anno dopo la concorrenza lanciò Pressing condotto da Raimondo Vianello ed io, magari guardavo l’uno mentre registravo l’altro, per poi rivedermelo il giorno dopo. E se non c’erano partite di Coppa in settimana, <queste, per lo più, trasmesse in diretta dalla Rai>, aspettavo con ansia che venisse domenica, per immedesimarmi nelle gesta dei miei idoli e dimenticare tutto il resto che era, in gran parte, da buttare via. Non andavo allo stadio perché non c’era nessuno che mi portasse. Tranne in due occasioni: la prima nel gennaio del 1982 a vedere vincere i “cugini” del Genoa con il Napoli.  E poi finalmente nel 1990, <ricordo che era il 30 dicembre>, delle persone venute da Stresa e dintorni, mi portarono a vedere Sampdoria – Inter. Tra loro c’era un “amico” che avevo conosciuto in estate e che di lì a pochi anni, sarebbe diventato un grande regista televisivo: Duccio Forzano.


A quel tempo camminavo ancora, seppur tenuto sottobraccio, e feci un lungo tragitto a piedi, sorretto da entrambe le parti, faticando molto e sudando parecchio. Ma lo sforzo fu ripagato e al ritorno verso l’auto, per l’euforia e la gioia, non sentii nemmeno la stanchezza. La Samp aveva giocato una grande partita, e pur se in inferiorità numerica per  molto tempo a causa di un’espulsione, era riuscita a battere i neroazzurri di Trapattoni per 3 – 1 con una doppietta di Vialli ed una segnatura di Mancini.  Si comprendeva che quella fosse la stagione giusta per vincere lo scudetto e proprio la gara di ritorno con l’Inter fu lo scontro chiave. Se ne avessimo giocate altre 9 le avremmo perse tutte, ma quella fu stregata per i nostri avversari e magnifica per noi  Vincemmo 2 -0 con i gol di Dossena e Vialli e ci aprì le porte del Paradiso. Porte che si spalancarono definitivamente domenica 19 maggio con la vittoria sul Lecce per 3 – 0  con i gol di Cerezo, Mannini, <terzino vecchio stampo, dal piede non fatato, che segnò il gol della vita con un tiro al volo da fuori area>, e l’immancabile rete di Vialli. A Genova era arrivato il principe dei radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto” Enrico Ameri e lo ascoltavo commentare le azioni, mentre il frastuono dello stadio era assordante. Quarantamila spettatori circa, ma se ci fosse stata la possibilità, forse sarebbero stati il doppio. Io ascoltavo gli eventi con gioia, ma anche con un pizzico di tristezza perché mi sarebbe piaciuto vedere e vivere dal vivo, quella magnifica giornata. Ma io non potevo muovermi, se non accompagnato da qualcuno che volesse farlo veramente. Ed attorno a me c’era il deserto, o quasi. Ed allora dovetti accontentarmi di quello che ascoltavo alla radio, o forse vedevo su qualche tv locale.


Si sentivano le trombe, i cori assordanti, ma ricordo soprattutto un potentissimo e prolungato “E chi non salta, è genoano ohohohohoh….”. Poi il conto alla rovescia  scandito da tutto lo stadio… Davvero da brividi, fino al tripudio finale. Il Milan aveva perso e non ci poteva più raggiungere. Eravamo Campioni d’Italia per la prima volta, grazie soprattutto a Gianluca, che da quando era rientrato da un infortunio serio, aveva messo la quarta a tutta la squadra, segnando a ripetizione e diventando capocannoniere della serie A con 19 gol. Era riuscito a superare le delusioni del mondiale di Italia 90, giocato poco e male, ed a rispondere alla grande alle critiche. Il ruolo del bomber è fondamentale in una squadra di calcio: puoi avere tutto, ma se ti manca quello che ti mette la palla in rete, non fai molta strada. E fu così l’anno successivo nella finale di coppa dei Campioni tra Sampdoria e Barcellona. Fu l’ultima partita di Vialli con la maglia della Samp, la più triste, la più dolorosa, la più incompiuta. La più amara. La sera del 20 maggio 1992 nel mitico stadio inglese di Wembley, forse per sfortuna, forse per distrazione o deconcentrazione, forse per essere incappato in una giornata storta, fallì clamorosamente alcune incredibili palle gol che in altre circostante avrebbe messo a segno. La beffarda punizione di Kooman nei tempi supplementari, spense i nostri sogni e le nostre speranze di vedere la Sampdoria sul trono d’Europa.


Dopo qualche giorno si seppe che Gianluca era stato ceduto alla Juventus per 40 miliardi di lire. Era l’inizio della fine di un ciclo, di una storia che non sarebbe stata più riscritta a caratteri cubitali da nessun altro.  Ma proprio in quello stadio dove i sogni per noi doriani si erano infranti, quasi 30 anni dopo, i due ragazzi  diventati uomini, scrissero una delle più belle pagine della storia del calcio italiano. Quella nazionale, non era nemmeno paragonabile al talento e al genio, di quella in cui avevano militato. Eppure riuscirono nell’impresa di portare l’Italia sulla vetta d’Europa.  L’abbraccio commovente tra i due amici fraterni segnò la chiusura di un cerchio, rimasto aperto per troppi anni e forse in Vialli, si insinuò anche la disperazione, la consapevolezza di non avere molto tempo ancora avanti a se. Saputo della grave malattia che lo aveva colpito nel 2017, si era posto due obiettivi: non morire prima dei genitori e portare le figlie all’altare. Non ce l’ha fatta, il cancro ce lo ha portato via. Una persona come lui, che amava la vita ed era profondamente buono e resiliente, avrebbe dovuto vivere ancora per 100 anni.  Ecco, perché non abbiamo più lacrime per piangerlo. Ed in me si fa strada il rimpianto di non averlo potuto conoscere ed abbracciarlo.