Genova: morto a 93 anni il regista Giuliano Montaldo, diresse "Sacco e Vanzetti" e "Gli occhiali d'oro"

di Stefano Rissetto

3 min, 12 sec

Debuttò come attore in "Achtung! Banditi!" di Lizzani, poi passò con successo dietro la macchina da presa

Genova: morto a 93 anni il regista Giuliano Montaldo, diresse "Sacco e Vanzetti" e "Gli occhiali d'oro"

Si è spento nella sua casa di Roma Giuliano Montaldo. Nato a Genova nel 1930 avrebbe compiuto 94 anni il prossimo 22 febbraio. Vicini a lui sua moglie Vera Pescarolo,la figlia Elisabetta e i suoi due nipoti Inti e Jana Carboni. Per scelta della famiglia non si terranno esequie pubbliche.

Here's to you, Nicola and Bart. Se ne va anche Giuliano Montaldo, colto e appassionato cineasta, e il ritroso dell'evocazione porta alla musica di Morricone, alla voce di Joan Baez, al tema di "Sacco e Vanzetti", a Gian Maria Volontè al primo ruolo della seconda e decisiva carriera di attore politico.

Montaldo era entrato nel cinema per caso, partecipando in un ruolo secondario ad "Achtung! Banditi!" di Lizzani girato a Genova, dando quindi una mano al regista per organizzare le riprese. Sedotto dal fascino del ciak, lasciò il lavoro in una casa di spedizioni e prese la strada per Roma. Rimase molto legato alla sua Genova ("La amo troppo, perciò non vi girerei mai un film"), anche per via della passione per il Genoa: il progetto incompiuto di una pellicola sulla storia del Grifone, con Vittorio Gassman protagonista, è stato uno dei suoi rimpianti.

Uomo sempre orgogliosamente di sinistra, per tutta la vita iscritto all'ANPI (girò "L'Agnese va a morire" dal romanzo della Viganò), non aveva avuto paura a scegliere il più scomodo dei temi per l'esordio da regista nel 1961 con "Tiro al piccione": il cupo periodo fratricida italiano dall'8 settembre alla Liberazione, visto con gli occhi di uno che molto più tardi, da presidente della Camera, l'ex PCI Luciano Violante avrebbe definito "ragazzo di Salò". Era un tema che anche più tardi, sul finire degli anni Novanta, avrebbe ostacolato non poco la carriera di Daniele Luchetti, brillante autore de "Il portaborse" e col povero Mazzacurati allievo distinto di Moretti, ma che aveva osato cimentarsi con "I piccoli maestri" di Meneghello, altra opera eterodossa e antiagiografica sulla guerra civile. Eppure la lettura di quel tempo operata da Montaldo convinse gli spettatori, per lucidità e onestà intellettuale che sempre lo hanno contraddistinto. Ma prevedibilmente non godette dei favori della critica di partito e anche all'interno del suo PCI il regista si sarebbe trovato alla sbarra, per i soliti processi sommari con le immancabili accuse di deviazionismo.

Ha girato lavori rimasti nella storia della nostra cultura, a partire da quella trilogia sul potere di cui la vicenda degli anarchici italoamericani condannati ingiustamente a morte è il capitolo centrale, insieme con "Gott mit Uns" e "Giordano Bruno".

Raggiunse il grande pubblico in tv con lo sceneggiato a puntate "Marco Polo", ma la sua vera passione era la letteratura. Infatti ebbe la forza di cimentarsi con due scrittori eccentrici e marginalizzati dai novatori del Gruppo '63 e dintorni: Giorgio Bassani, di cui andò a recuperare la storia del dottor Fadigati, un medico ebreo omosessuale ferrarese molteplicemente emarginato, nella maestosa interpretazione di Philippe Noiret, per "Gli occhiali d'oro" molto applaudito a Venezia. Quindi fu la volta di Ennio Flaiano, eccelso sceneggiatore per Fellini, che era stato costretto a fine guerra da Leo Longanesi a chiudersi in una stanza per scrivere un romanzo, era così nato "Tempo di uccidere", titolo radicato nel Qoelet, premio Strega 1947, fratello segreto de "Lo straniero" di Camus. Una storia aspra e sgradevole, con Nicolas Cage nelle sabbie dell'Etiopia.

Chiuse la carriera come l'aveva cominciata, da attore per Francesco Bruni, vincendo nel 2016 il suo secondo David dopo quello alla carriera. Lo si era visto perfino in un arguto cameo nel "Caimano" di Moretti. Da buon genovese estremo, Montaldo ha scelto di andarsene senza cerimonie. Se ci dovesse mai essere una scritta sulla lapide, potrebbe essere un passo della lettera che Vanzetti scrive a Sacco: "Quando dico "compagni", dico la nostra innocenza, la verità, le nostre idee, dico la nostra libertà".