Vinitaly, il record della Liguria figlio di un grande salto di qualità

di Paolo Lingua

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Vinitaly, il record della Liguria figlio di un grande salto di qualità
Al recente “Vinitaly” di Verona la Liguria ha partecipato con 250 etichette, un autentico record per una regione piccola e con uno spazio agricolo relativamente ristretto e che, sino  a quest’ultimo dopoguerra, non brillava tra le regioni italiane produttrici di quello che è sempre stato considerato un “nettare degli dei”. In effetti la Liguria, nel corso degli ultimi trent’anni, ha compiuto in questo settore un salto di qualità, razionalizzando   la sua produzione, facendo ricorso agli enologi (cosa mai avvenuta in passato), nonché trapiantando, con prudenza a professionalità, nuovi vitigni in zone geograficamente idonee. Non tutto il prodotto sarà da “dieci e lode”, ma la media generale è certamente molto alta. Per fare un salto nella storia va ricordato che in epoca romana anche Plinio il Giovane non aveva una grande opinione dei vini liguri che, però, emersero in almeno due occasioni. Una fu la valorizzazione dei “vini di Taggia” (il misterioso “moscatello”) nel Basso Medio Evo. L’altra, più importante, fu l’utilizzo del vino bianco delle Cinqueterre come vino da messa del papa nel XVI secolo. Più strutturato e più robusto sul piano alcolico, il bianco delle Cinqueterre  reggeva il trasporto via mare ne poteva essere usato per tutto l’anno senza che si inacidisse. Il vino delle Cinqueterre, prima il bianco e poi lo Sciacchetrà, mantennero una loro qualificazione di pregio tanto è vero che furono cantati anche da Giovanni Pascoli. Per molto tempo la Liguria aveva vini quasi sconosciuti, con l ‘eccezione dei due estremi del territorio (pare che il Rossese di Dolceacqua piacesse a Napoleone) regionale.  Tra il XVII e il XVIII secolo approdò in Ponente il vitigno del “vermentino” forse proveniente dalla penisola iberica, tanto è vero che si fermò anche in Sardegna. Solo recentemente è coltivato anche nell’area lunigiana.  Ma nel tempo anche le zone del savonese, del genovesato e del Tigullio guadagnarono il loro spazio ne la loro celebrità. In Liguria per decenni per non dire per secoli si beveva, dai vini locali, un bianco leggero e asprigno, differente da zona a zona, una sorta di “nostralino” che era indicato come vino da “fave e salame” o di un rosso leggero che era chiamato, soprattutto nell’area ponentina, “vino da coniglio”. Ma, sino alla prima metà del XX secolo, il mercato e il consumo di vino in Liguria fu dominato dai vini piemontesi. In Liguria non c’era una grande tecnica di vinificazione e si impiegavano anche botti non adatte.  Nell’ultimo mezzo secolo la cultura enologica in Liguria si è rovesciata e i coltivatori si sono concentrati sulla qualità, giocando anche sulla varietà. Si sono studiate le variabili del clima e delle posizioni geografiche sottolineando gli aspetti più favorevoli alla coltivazione e alla Lavorazione. Oggi in Liguria il vino è il prodotto di maggior pregio ne anche di maggior business dopo, ovviamente, l’olio. In effetti la Liguria non è nella condizione di dar vita a una produzione agricola disordinata e troppo differenziata, ma soprattutto occorre evitare i frazionamenti. Anche sul vino, visti i risultati del lavoro degli ultimi vent’anni, è meglio concentrarsi e puntare soprattutto sull’eccellenza e sulla qualità. Solo così, oltre a migliorare il consumo interno, sarà possibile approdare ai mercati italiani e persino stranieri. I risultati di “Vinitaly” di quest’anno ne sono la conferma. Bisogna brindare – è giusto – ma poi proseguire coerentemente per la strada che si è intrapresa e che sta fornendo i risultati di business che ci si era prefissi.